Duecento parà italiani in Libia ufficialmente a protezione di un ospedale da campo ma Daesh non c’entra: in Libia si combatte per il controllo dei terminal petroliferi
Roma invierà a Misurata un contingente di 100 medici, con la protezione di circa 200 parà, per curare i soldati libici. Annuncio di Pinotti e Gentiloni, ministri della guerra e degli esteri di Renzi, dalle colonne di Repubblica anziché dagli scranni parlamentari sebbene Renzi, nella sua e-news del 5 marzo 2016, avesse giurato che qualsiasi missione in Libia si sarebbe potuta verificare solo passando dapprima per il voto del Parlamento. La conferma della ministra Pinotti alle commissioni congiunte: l’operazione, chiamata ‘Ippocrate’, coinvolgerà 300 militari: 60 tra medici e infermieri, 135 per supporto logistico e 100 unità di ‘forze protection’. Presente anche un aereo nell’eventualità di evacuazioni ed una nave al largo delle coste libiche. «Tutto è pronto. Il parlamento sta decidendo di votare una risoluzione e lo consideriamo favorevolmente perché è un supporto a quello che il governo ha proposto. Appena questo verrà fatto noi siamo pronti a partire».
Parrebbe una forma umanitaria quella presa dalla missione italiana con la creazione di un ospedale da campo protetto dai militari proprio nella città che fornisce il maggior numero di miliziani che combattono l’Isis a Sirte. Nei fatti è uno soltanto degli aspetti della partecipazione italiana alla campagna di Libia mentre proseguono gli scontri nei porti di petrolio. La Libia è in guerra e l’Italia è in Libia, scriviamo ormai da mesi. Ammette la ministra: «A Sirte le milizie di Daesh sono confinate in uno o due chilometri quadrati distribuiti su due e tre quartieri. E le forze libiche di al Serraj hanno sigillato l’area dove si trovano i jihadisti, con un anello di contenimento. Questo è importante perchè c’era la preoccupazione che i jihadisti, scappando da lì, potessero portare instabilità in altri territori». Daesh, infatti, c’entra poco con quello che sta accadendo sull’altra sponda del Mediterraneo dove la lotta tra Tobruk e Tripoli si concentra sul controllo dei terminal. E restituisce le stesse domande di sempre: c’è una sola Libia o almeno due entità, Tripolitania e Cirenaica, in mano ai signori della guerra? E gli interessi italiani da che parte si collocano visto che le fazioni in campo vedono le grandi potenze occidentali farsi la guerra per interposti signori della guerra. Italiani, inglesi e americani lavorano a Misurata e per Sarraj, i francesi spingono la controparte del generale Khalifa Haftar, che non ha ancora accettato l’accordo dell’Onu. Al Sisi, rimpinguato di armi da Putin e dai francesi, manovra il generale Haftar e considera la Cirenaica una provincia egiziana. Il Qatar finanzia gli islamisti radicali a Tripoli, gli Emirati si sono comprati il precedente mediatore dell’Onu, Leòn, per appoggiare Tobruk, la Turchia ha rispedito i jihadisti libici dalla Siria a fare la guerra santa nella Sirte.
La quarta guerra italiana alla Libia è soprattutto un’operazione sottotraccia alienata da qualsiasi forma di dibattito pubblico e politico. Il governo Renzi s’è gia mostrato disponibile a concedere il sorvolo ai droni Usa e l’utilizzo delle basi come Sigonella (in ossequio al mandato dell’Onu perché ufficialmente richiesti dal governo fantoccio di Sarraj). Per mesi si sono rincorse
indiscrezioni su un discreto numero di militari italiani nel Paese con licenza di uccidere e immunità per eventuali reati commessi (l’ultima legge di stabilità nascondeva 700 milioni di euro per la loro mercede). Sarebbe il numero maggiore di unità straniere nell’ex Jamahiriya di Gheddafi (l’attentato in Bangladesh del 2 luglio 2016 che ha ucciso nove italiani sarebbe una ritorsione per la loro presenza) e sarebbero di stanza proprio a Misurata dove lavorerebbero in team con gli inglesi nell’addestramento e nel supporto logistico alle milizie in trincea di Sirte.
Per effetto di un decreto ministeriale (secretato) del 10 febbraio 2016 il personale militare italiano figura sotto il comando dei servizi segreti per l’estero (Aise), in coordinamento anche con le barbe finte già presenti in Libia, per portare a termine missioni speciali decise da Palazzo Chigi. Tecnicamente non sarebbero truppe sul campo ma forze per la sicurezza e in sostegno ai “nostri” sul posto.
La cosiddetta ‘Mezzaluna petrolifera’ è caduta nelle mani del generale Khalifa Haftar, legato al Parlamento di Tobruk, la città dell’est che ancora non ha dato la fiducia al governo di Tripoli messo su dall’Onu. In meno di 24 ore i porti petroliferi di Zueitina, Brega, Sidra e Ras Lanuf sono caduti nelle mani delle forze del generalissimo Haftar. Il presidente della Camera dei rappresentanti (Hor) di Tobruk, Aqila Saleh, si è felicitato con le guardie delle installazioni petrolifere (vicine a Tripoli) per avere ‘ceduto’ le installazioni «senza alcuna resistenza» e ha chiesto alla National Oil Corporation (Noc) di occuparsene «dopo che sarà conclusa la missione delle forze armate per proteggere i siti». Ma la risposta da Tripoli non si è fatta attendere. Gli attacchi «minano la riconciliazione», ha denunciato il Consiglio della presidenza e sul suo portale Facebook ha annunciato che il «ministro incaricato della Difesa è stato chiamato ad assumersi le sue responsabilità e a chiamare tutte le unità militari a far fronte all’aggressione contro le installazioni ed i porti per riprenderli ed assicurare la loro protezione». Gentiloni invoca la «necessità della cooperazione tra il governo di Tripoli e le altre forze libiche, incluse quelle che si riconoscono in Haftar».
La missione è un «contributo tipico di quello che può fare l’Italia all’estero – ha spiegato il titolare della Farnesina – ossia aiutare i consolidamenti dei processi di stabilizzazione anche con le proprie forze armate». In Libia «abbiamo bisogno che la situazione si consolidi, per far fronte al terrorismo e per gestire meglio l’emergenza migratoria».
da anticapitalista.org