Reparti confino, postazioni punitive, intimidazioni, denunce, cariche della polizia. La repressione padronale nelle grandi fabbriche raccontata dagli operai
di Checchino Antonini
«Immagina un capannone – mi fa Antonio Montella, 55 anni metà passati in Fiat – come una piazza ma coperta. Vuota, mille metri quadrati per 150 operai ad ogni turno. E che non hanno nulla da fare. Come centocinquanta detenuti in un’ora d’aria moltiplicata per otto, qua e là a chiacchierare in piccoli gruppi. Ecco cos’è un reparto confino. Ogni tanto arrivavano le “cassette”, pezzi fuori misura per passare sulla linea di montaggio, che noi dovevamo sistemare in una sorta di scaffale a rotelle da affiancare alla catena per eliminare i tempi morti, sveltire il lavoro». Doveva essere un grandissimo polo, così aveva giurato la Fiat, ma è durato pochi mesi. Poi per Antonio e altri 315 è stata solo la fabbrica della disperazione, tutti in cassa integrazione dal 2008, mai o quasi mai richiamati al lavoro.
Il reparto confino di Nola
L’hangar sta a Nola, si chiama World Class Logistic (WCL). Quindici chilometri a ovest c’è Pomigliano. Negli anni 90, ci lavoravano in 13mila e la Fiat era il secondo costruttore europeo. Ora sono 2200, 2mila in cig da sette anni ininterrottamente. Proprio da Pomigliano sono stati “deportati” nel 2006 i 316 operai: quasi tutti gli iscritti al Cobas, come Antonio, un bel po’ di quelli Fiom, i lavoratori che hanno vinto le cause di reintegro (ma Marchionne li ha sbattuti qui in attesa della Cassazione) e tutti gli RLC, ridotta capacità lavorativa, quelli che stanno male. Il tribunale di Nola non ci ha trovato nulla di discriminatorio ma, solo nel 2014, nel giro di pochi mesi, si sono suicidati tre lavoratori e altrettanti hanno tentato di farlo. «Non si può continuare a vivere per anni sul ciglio del burrone dei licenziamenti», scriveva nel 2011, dopo i primi suicidi, Maria Baratto, operaia che tre anni dopo si è tolta la vita nella sua casa di Acerra. Era la fine di maggio. Quaranta giorni prima s’era ucciso Peppe De Crescenzo, suo compagno di lotte, da 7 anni licenziato arbitrariamente ed ancora in attesa della causa rimandata alle calende greche dai giudici del lavoro di Nola. Lo stesso tribunale che ha dato ragione alla Fiat quando ha licenziato Antonio e altri quattro per aver manifestato tutto lo sdegno e il dolore per quei suicidi. Era il giugno del 2014. Una manifestazione satirica ai cancelli del Wcl: il manichino di un improbabile Marchionne pentito che s’impicca pentito per il male derivato ai lavoratori dalle sue scelte.
In corteo, i cinque di Pomigliano e centinaia di persone venute da Melfi, Taranto, dalla Val Susa, Roma, Torino, hanno raggiunto il Tribunale di Napoli il 20 settembre, per il processo d’appello. Sette lunghissimi giorni dopo la sentenza di Napoli ribalta quella di Nola: Antonio e i suoi compagni ce l’hanno fatta, «con un sampietrino abbiamo fermato un carrarmato!», mi dirà Antonio tra le lacrime perché, comunque, Peppe e Maria non varcheranno i cancelli con loro che sono stati reintegrati. E’ festa in Piazza Plebiscito, sotto quella tenda che resterà in piedi, a disposizione dei movimenti napoletani. Da lì parte anche l’idea di formare comitati operai per il No al referendum costituzionale perché la riforma di Renzi e Boschi e come un metodo Marchionne che si estende a tutta la società e alle istituzioni.
«La sentenza di Nola nega che si sia trattato di una manifestazione sindacale e che ci sia un nesso di causalità con l’ondata di suicidi – spiega a Pino Marziale, legale dei cinque operai – e, soprattutto, estende gli obblighi di fedeltà all’azienda anche fuori dall’attività lavorativa, sebbene i cinque non mettessero piede in fabbrica da quasi sei anni. C’è un clima repressivo che si respira anche nelle aule dei tribunali. La parola magica sembra essere “vincolo fiduciario”, come se il lavoratore appartenesse al datore di lavoro».
La violenza padronale nella logistica
Nola è un polo logistico come quello di Montale di Piacenza dove, alla Gls, un camionista italiano ha travolto e ucciso un facchino egiziano che stava facendo un picchetto. «La logistica è uno snodo cruciale e impossibile da esternalizzare – osserva Riadh Zachdane, responsabile del comparto per l’Usb – così, come in agricoltura e nel pulimento, lo spappolamento del contratto nazionale consente ai datori di usare false cooperative per sfruttare lavoratori soprattutto stranieri e più ricattabili. L’Istat ha calcolato che prendono in media 400 euro in meno dei loro colleghi italiani. Almeno al centro nord perché al Sud i migranti nel settore sono solo l’1%, lì i migranti sono gli italiani che lavorano per 12 ore a 800 euro». Riadh restituisce la durezza di ogni picchetto dove gli autisti, pagati a viaggio, vengono “lanciati” dalle aziende contro i facchini. Era da tempo che dicevamo che prima o poi ci sarebbe scappato il morto».
E’ lo “stile Fiat” che fa scuola, fatto di repressione e mobbing oltre che di ritmi terrificanti come quelli nella fabbrica di Melfi o dell’Ilva di Taranto dove sabato scorso è morto l’ennesimo operaio. «Reparti confino o postazioni punitive esistono ovunque – conferma Eliana Como, del comitato centrale dei metalmeccanici della Cgil – servono a depotenziare la conflittualità sindacale e ad incoraggiare meccanismi clientelari tra i sindacati più concertativi».
Piaggio, delegati confinati in magazzino
Come alla Piaggio di Pontedera, 2000 operai e 900 impiegati. «Ogni volta che gli operai provano a organizzarsi, l’azienda prende contromisure – racconta Massimo Cappellini, Rsu Fiom – qui il reparto più importante è il 2R, quello degli scooter finiti, punto centrale della produzione. Il fatto che qualcuno possa radicarsi in quel reparto è come acido negli occhi del management. Appena qualcuno si contraddistigue in uno sciopero viene spostato altrove. Il lavoratore attivo, infatti, è un potenziale delegato: una volta eletto è più difficile trasferirlo. Così quasi tutti vengono confinati nelle Meccaniche, officine più deboli dal punto di vista produttivo, o nei magazzini. Nei momenti di fermento l’azienda fa ostruzionismo, se scioperi piovono segnalazioni. Siamo molto accorti per evitare provvedimenti più gravi. L’azienda si sente legittimata ad agire quando un delegato si trova isolato dalla propria organizzazione sindacale e questo, anche in Cgil, capita spesso. Le organizzazioni sindacali non sempre hanno voglia di far causa all’azienda, i giudici sono sempre più spesso ostili ai lavoratori, l’unica strada sono le lotte. Per questo è fondamentale cercare di irrobustirsi formando dei gruppi tra fabbriche per discutere le strategie possibili da un punto di vista indipendente rivolto ai lavoratori e non alle strutture, per non far cadere nella rassegnazione i lavoratori più attivi e difenderli al momento opportuno quando si trovano sotto pressione dal padrone è sempre più spesso dai vertici sindacali».
Fincantieri, pioggia di processi e postazioni confino
Dopo l’omicidio di Abd Elsalam, dalla Fincantieri di Palermo è partito un appello per uno sciopero generale. «La storia ha colpito molto i lavoratori – dice Serafino Biondo, Rsu Cgil – e anche qui viviamo un momento di repressione pesante. In fabbrica sono piovuti 300 provvedimenti disciplinari (tutti impugnati di fronte all’ufficio provinciale dove spessissimo vinciamo) che fanno parte di una strategia per spaventare i lavoratori e allontanarli dal sindacato. Quando blocchiamo gli ingressi al porto subiamo pressioni pesantissime da parte della digos che minaccia denunce. Sono in corso due processi penali, con Fincantieri parte civile, per l’occupazione della fabbrica del 2011. Vincemmo la vertenza ma in 41 ci siamo trovati imputati di vari reati legati al conflitto: da violenza privata a danneggiamenti con pene fino a cinque anni. A luglio abbiamo ricevuto la notifica di altre denunce per certi blocchi stradali di febbraio». E, per «quelli che rompono le palle» ci sono le lavorazioni quasi inaccessibili, postazioni larghe 40 centimetri, le più pericolose e faticose, dove si dovrebbe andare a rotazione ma sono dedicate sempre ai soliti guastafeste. Fincantieri, inoltre, ha spedito tantissimi Rcl a visita medica. «Quasi tutti sono divenuti improvvisamente idonei e spediti a saldare ma i ricorsi all’ente pubblico quasi sempre hanno ribaltato il parere del medico aziendale. Anche così si puniscono i lavoratori più combattivi». E, se i datori puntano anche qui alla concorrenza fra i penultimi e gli ultimi, spesso trovano delle resistenze: «A maggio, dopo un cambio appalto della mensa, l’azienda subentrante ha licenziato i vecchi dipendenti – racconta ancora Biondo – i lavoratori hanno disertato la mensa per due settimane e abbiamo scioperato a sostegno della vertenza che è ancora in corso».
Arriva la democrazia autoritaria
«Il jobs act, che ha cancellato l’articolo 18, prevede anche il controllo a distanza, la videosorveglianza. Questo ha accentuato le possibilità di comportamenti punitivi, è una sorta di Valletta 2.0», considera Italo Di Sabato, dell’Osservatorio Repressione – c’è un filo tra le “controriforme”, il controllo sociale e quello che è avvenuto alla Gls di Piacenza: è un processo di costruzione di democrazia autoritaria». Alcuni numeri dell’Osservatorio Repressione sulle denunce degli ultimi anni per reati legati al conflitto: 4.800 tranvieri e ferrovieri denunciati per interruzione di pubblico servizio per la non ottemperanza della precettazione;850 lavoratori forestali, braccianti, ex Lsu/Lpu, precari, denunciati – tra Calabria, Puglia e Sicilia – per blocco stradale, interruzione di pubblico servizio, invasione danneggiamento; 620 operai Fiat, di Termini Imprese, Melfi, Cassino, Arese, Pomigliano, Termoli, denunciati per blocco stradale-ferroviario, manifestazione non autorizzata, associazione sovversiva (tra questi 43 “licenziamenti politici”); 45 operai della Tyssen Krupp e cittadini di Terni denunciati per blocco stradale e ferroviario; 20 portuali di Gioia Tauro, denunciati per manifestazione non autorizzata; 800 disoccupati napoletani denunciati per associazione a delinquere, resistenza, violenza, danneggiamento, blocco stradale; 45 lavoratori dell’Alitalia di Roma denunciati per interruzione di pubblico servizio e danneggiamento; 8 arresti e 30 denunciati tra gli attivisti napoletani del movimento disoccupati; multe da 2500 a 10.000 euro per il blocco della tangenziale avvenuto a Milano il 2 agosto 2009 a 20 operai dell’Innse.
[una versione di questo articolo è apparsa sul numero 39 del settimanale Left]
gli operai bisogna per cosi dire vederli all’opera per comprendere cosa sono capaci di fare e quanto sono ignoranti, senò non si capisce e si rischia di fare confusione e di lasciarsi impietosire….comunque per me hanno ragione un pò i lavoratori, ma anche i datori di lavoro e bisognerebbe trovare una via di mezzo. Io qualche idea ce l’ho.
Posso fare una domanda altrettanto legittima ? Ma perchè un’azienda di 80.000 operai solo in Italia deve tenere 150 operai a turno in confino: peraltro improduttivi ? Credo che sia lecito farsi una domanda del genere: oppure no ? Senza voler prendere le parti di questo o di quell’altro .. ma vi sembra possibile ? Fiat con l’avvento di Marchionne era una fabbrica da libri in tribunale oggi è ben altra cosa. Ma vi pare possibile tutto questo ? Io a volte rimango basito. Ma come sempre ripeto: chi è causa del suo mal pianga se stesso.
I reparti confino fanno parte della storia industriale italiana … il perché esistono è ben chiaro, anche in quanto riporta Checchino in questo articolo https://www.internazionale.it/reportage/maila-iacovelli/2014/10/27/reparti-confino-in-italia-9
[…] di tutele ambientali o sanitarie. La nuova proprietà stabilisce invece reparti confino – pratica in voga ancora oggi in molte grandi industrie italiane – e utilizza la legge sui benefici per l’esposizione […]
[…] La nueva propiedad, en cambio, establece departamentos de confinamiento – una práctica que todavía está de moda hoy en día en muchas grandes industrias italianas – y utiliza la ley sobre los beneficios por la […]