La storia dei cinque operai di Pomigliano, licenziati da Marchionne e reintegrati dopo una lunga lotta. Un esempio ed un punto a favore per tutti i lavoratori
di Andrea Vitale
La vittoria degli operai di Pomigliano, con la sentenza della corte d’appello di Napoli che ne sancisce il reintegro, segna un punto a favore di tutti gli operai.
Sarebbe interessante ricostruire tutte le vicende che hanno portato al licenziamento, ma ci limiteremo a descriverne sommariamente i tratti essenziali.
La creazione del polo logistico di Nola, mai entrato veramente in funzione, è servito alla Fiat per liberarsi in un sol colpo di una gran fetta degli operai combattivi nello stabilimento madre di Pomigliano, per lo più iscritti ai sindacatini di base. Insieme a questi vengono deportati a Nola numerosi operai RCL, ossia dalle ridotte capacità lavorative. Dopo essere stati logorati da anni di lavoro sulle linee, a mo’ di ringraziamento, Marchionne se ne è sbarazzato utilizzando il più classico dei sistemi aziendali: la deportazione in un reparto fantasma.
I lunghi anni di cassa integrazione a zero ore, condizione condivisa da più di metà degli operai della FCA di Pomigliano, determinano un clima pesantissimo tra i lavoratori di Nola, con parecchi tentativi di suicidio, due dei quali, purtroppo, riusciti. Entrambi gli operai suicidi sono attivisti sindacali. Nel tentativo di denunciare la gravità della situazione, gli operai del comitato di lotta, costituito dai cinque famosi licenziati, inscenano un finto suicidio mediante impiccagione di Marchionne. Un sacrilegio per l’azienda, che fa scattare immediatamente la rappresaglia dei licenziamenti.
La prima scandalosa sentenza
All’inizio anche fra i licenziati, la portata dell’offensiva aziendale viene sottovalutata. In fondo il licenziamento non sta né in cielo né in terra, mentre altri, meglio architettati e riferiti ad episodi disciplinarmente rilevanti, sono stati annullati dalla magistratura, anche grazie alla dimostrata capacità messa in campo dagli operai di smontare i tentativi escogitati dalla Fiat. Una manifestazione pacifica, satirica, di denuncia della drammaticità della condizione operaia a Nola, legata alle tragedie verificatesi fra questi lavoratori, per di più avvenuta non in orario di lavoro e fuori lo stabilimento non avrebbe potuto certamente agli occhi dei magistrati giustificare i licenziamenti. Si trattava di aspettare allora il reintegro, stringendo ancora una volta di più la cinghia, ma continuando imperterriti nelle azioni di denuncia e lotta. Il sentore che le cose fossero più complicate comincia a farsi strada quando il Tribunale di Nola, invece di fissare l’udienza del processo entro 40 giorni dal deposito del ricorso, come tassativamente prevede appunto il rito Fornero, la fissa a ben 11 mesi dal licenziamento. Un ritardo non giustificabile con i soliti motivi di penuria di personale, visto che per questo tipo di cause è prevista una corsia preferenziale. Un ritardo che in ogni caso ha l’effetto di complicare la situazione dei licenziati, per i quali scade il sussidio di disoccupazione e si trovano, ancora in attesa dell’udienza, senza alcuna fonte di reddito. In questo quadro i cinque operai decidono di rilanciare l’iniziativa e Mimmo si arrampica su una gru dei cantieri della metropolitana di Piazza Municipio, dove resterà per ben sei giorni. Malgrado la mobilitazione e la combattività messa in campo, il primo pronunciamento del giudice è negativo: i licenziamenti vengono confermati. La lettura della sentenza, che sposa in pieno tutte le tesi della Fiat, rende manifesto che ci troviamo di fronte ad un preciso piano della azienda, che va ben oltre il tentativo, continuamente reiterato, di liberarsi di questo gruppo indomito di operai, l’unico che senza paura, dopo i pesanti effetti della “cura” Marchionne, ha ancora il coraggio di affrontare a viso aperto, con scioperi e picchetti, la Fiat. Se l’azienda avesse voluto solo licenziarli avrebbe potuto far ricorso a tutti quei mezzucci ben noti a chi conosce la Fiat, che ha una particolare abilità di “liberarsi” delle avanguardie operaie. La strada scelta è invece plateale ed esplicitamente ideologica. Mi hai criticato, non importa se non durante il tuo lavoro, ed io ti licenzio perché anche nella tua vita personale tu sei mia proprietà e devi sottostare al mio controllo e giudizio. Questo è il messaggio che con il licenziamento la Fiat ha lanciato e questo messaggio è stato pienamente accolto e confermato dal Tribunale di Nola. La sentenza è così articolata e argomentata da avere, come molti giuristi ci hanno poi confermato, un carattere di “indirizzo”. Se i licenziamenti passeranno in questo modo, la libertà di opinione di tutti gli operai e dei lavoratori subordinati sarà fortemente limitata. Appare chiaro che da parte dei licenziati urge un mutamento di strategia. Ne discutiamo, noi, un ristretto gruppo di militanti da sempre impegnati a sostenere le lotte di fabbrica, e loro.
La Fiat sta approfittando dell’isolamento dei cinque operai. Dell’incapacità attuale degli operai di mettere in campo una seria iniziativa di difesa a favore dei propri compagni, che pur conservano un forte legame con la massa degli operai. Dell’inconsistenza dei sindacati. Della mancanza di un fronte sociale pronto a mobilitarsi. Ma in questa strategia sta sottovalutando due aspetti, entrambi, per fortuna, rivelatisi in seguito decisivi nel ribaltare la situazione.
Il primo è senza alcun dubbio l’indomita determinazione e il coraggio dei cinque operai licenziati, un esempio limpido di che tipo di avanguardie formi e selezioni la lotta contro il regime di fabbrica. I sacrifici che questi operai hanno affrontato sono stati enormi ed i costi personali altissimi. Per mesi hanno dormito in macchina, mentre le loro stesse relazioni familiari sono andate a rotoli a causa dell’abisso di miseria cui il licenziamento ha fatto precipitare le loro famiglie, eppure nessuno dei cinque ha mai accennato alla possibilità di fare un passo indietro.
L’analisi e l’azione
L’altro aspetto è che la scelta del licenziamento ideologico operata dalla FCA è in collisione con il quadro generale legislativo attualmente vigente, andando nei fatti formalmente a riconoscere l’esistenza di una categoria di cittadini di serie B, a cui non vanno concessi gli stessi diritti degli altri. Bisogna far risaltare questa contraddizione, porre tutta la società di fronte a ciò che questa sentenza sostiene. Le iniziative di lotta, pur restando fondamentali, in assenza per ora, di una mobilitazione della massa operaia, non possono bastare, lo dimostra la rischiosissima protesta sulla ciminiera dell’altoforno di Bagnoli, cui, il giorno dopo, farà seguito un secondo pronunciamento negativo del Tribunale di Nola. Il primo passo è sviluppare una analisi ed una critica dettagliata della sentenza, che serva da base di tutta la campagna di propaganda da sviluppare. I due articoli di Operai e Teoria “Il diritto del lavoro, il diritto del più forte” e “Sentenza Mignano: un monumento alla schiavitù moderna degli operai”, sono il prodotto diretto di questo sforzo, in cui, fra l’altro, è stata messa in evidenza la tendenza attuale della giurisprudenza di estendere oltre quanto letteralmente previsto dal codice civile, il presunto obbligo di fedeltà che graverebbe sul lavoratore verso il proprio datore di lavoro. Il secondo passaggio è stata l’elaborazione, con un ristretto gruppo di intellettuali, di un appello che ha spinto molti giuristi ed intellettuali a schierarsi a favore degli operai. Per la prima volta dopo decenni gli operai sono stati al centro di una discussione fra gli intellettuali. Non è il caso dei ringraziamenti, ma è doveroso citare fra i tanti quelli che più si sono esposti: Alessandro Arienzo, Daniela Padoan e Guido Viale, che sono stati nostri preziosissimi compagni di viaggio, Moni Ovadia, Erri De Luca, Ascanio Celestini, Francesca Fornario, Valeria Parrella, Annamaria Rivera. La lista non finisce certo qui e per chi voglia leggerla completa basta collegarsi al sito dell’appello (https://nolicenziamentiopinione.wordpress.com/). Il culmine della campagna, a ridosso dell’udienza della Corte di Appello, lo si è avuto con il convegno tenutosi a Napoli il 16 settembre. Nel frattempo, senza arretrare di un millimetro, i cinque licenziati hanno sviluppato la campagna dei presìdi, durata più di un mese, prima fuori la FCA di Pomigliano e poi in Piazza Municipio a Napoli, imponendo a tutti, con la loro presenza, l’attenzione sulla loro vicenda. Il nutrito corteo del 20 settembre è stata la dimostrazione di quanto sia servita la loro azione.
Ma l’obbligo di fedeltà è ancora da cancellare
L’effetto combinato delle caparbie iniziative dei licenziati e della campagna stampa legata all’appello, insieme, ovviamente, alla sapiente opera dell’avvocato Marziale, hanno fatto sì che i giudici di appello ribaltassero le sentenze di Nola, predisponendo il reintegro dei cinque licenziati e il pagamento di 12 mensilità arretrate (lo schifo della legge Fornero è anche questo: il licenziamento è dichiarato illegittimo ma a fronte di più di due anni di salario la Fiat dovrà risarcire solo un anno). In questo senso la sentenza è ottima, anche se a noi non sta bene tutta la premessa iniziale in cui si riafferma la validità del cosiddetto “obbligo di fedeltà”, limitandosi a negare nel merito che i cinque licenziati, con il finto suicidio di Marchionne, l’abbiano violato.
Non sappiamo oggi se e quanto sarà complicato imporre alla Fiat la completa esecuzione della sentenza, ma sappiamo che fin da ora l’obiettivo principale di Mimmo e compagni sarà il rafforzamento dei legami mai spezzati con i loro compagni di fabbrica nell’ottica di una crescita di una vera organizzazione operaia che si sbarazzi delle miserie di uno Slai Cobas che non ha mosso un dito a favore dei licenziati e di una dirigenza Fiom, Landini in prima persona, che rincorrendo la chimera di un compromesso con Marchionne, ha tradito le precedenti battaglie per le libertà sindacali, non firmando l’appello.