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Davvero se vince il No si torna indietro di trent’anni?

Dice la propaganda renziana per il SI che con la vittoria del NO si tornerebbe indietro di trenta anni. In  un certo senso questa è una ammissione importante.

di Giorgio Cremaschi

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Un motivo guida della propaganda renziana per il SI è che con la vittoria del NO si tornerebbe indietro di trenta anni. In  un certo senso questa è una ammissione importante. Perché é da più di trenta anni che dura in Italia lo smantellamento dei diritti sociali e del lavoro e la controriforma costituzionale darebbe ad esso un assetto stabile e forse definitivo.

Quaranta anni fa in Italia c’era la piena occupazione ed il debito pubblico era il cinquanta per cento del PIL. La crescita annuale media della economia era superiore al quattro per cento, tra le più alte del mondo occidentale. Il sistema produttivo era fondato su eccellenze mondiali, nella chimica, nella metalmeccanica, nell’informatica ove la Olivetti, nonostante avesse ceduto brevetti fondamentali che avrebbero fatto fortuna negli Stati Uniti, continuava ad essere leader. Le industrie a partecipazione statale erano sede di sviluppo e scuola di formazione pratica e non solo finanziaria del management. Le principali banche erano controllate dallo stato e, nonostante le facili conclusioni cui si potrebbe giungere, più sicure di oggi, anche perché separate per legge dalla speculazione finanziaria. Certo il sistema subiva una forte pressione inflazionistica, ma su di essa vigilava la Banca d’Italia, che assorbiva tutte le necessità del Tesoro perché non era separata da esso, ma poteva stampare moneta. Della sovranità monetaria si avvaleva il governatore Baffi, che manovrava sul valore della lira, lasciandola svalutare rispetto al marco per rendere più competitive le nostre merci, e rivalutandola rispetto al dollaro per pagare meno la bolletta petrolifera. Baffi sosteneva che fosse meglio svalutare la moneta piuttosto che i salari e i diritti sociali, per questo fu fatto fuori da una congiura di palazzo.

Quaranta anni fa c’era in Italia un sistema economico e produttivo che, nonostante contraddizioni e strozzature, aveva dei fondamentali che oggi farebbero la gioia sfrenata del più esigente governo liberista.  Questo sistema però era permeato ovunque dal potere del lavoro e dei cittadini, dalle ragioni della eguaglianza sociale e della democrazia; e questo il potere economico non lo poteva accettare.

I lavoratori avevano accresciuto salari e diritti. Il solo contratto di assunzione era quello a tempo indeterminato, salvo per i lavori davvero saltuari. E funzionava il collocamento pubblico, con le sue liste numeriche alle quali le imprese erano obbligate ad accedere salvo che per le alte professionalità. I giovani non dovevano fare umilianti percorsi per trovare lavoro.

I diritti del lavoro avevano invaso tutta la società con un processo di riforme, allora quella parola significava l’esatto contrario di ciò che significa oggi,  che avevano resi operanti i diritti della prima parte della Costituzione attraverso lo stato sociale. Che funzionava, un episodio di quegli anni lo mostrò al mondo. Gianni Agnelli, la persona  più ricca e potente d’Italia, ebbe un infarto. Il suo elicottero avrebbe potuto trasportarlo in qualsiasi clinica privata di lusso, invece lo trasferì a le Molinette Di Torino, il grande ospedale pubblico dove il senatore capo della Fiat fu curato. La stessa cosa avveniva nella scuola pubblica,  che veniva studiata come esempio dai college privati  degli  Stati Uniti.

E la crescita dei diritti sociali promuoveva quelli civili, divorzio, aborto, chiusura dei manicomi, riconoscimento delle diversità, nascita di una cultura ambientale.

Il paese di Bengodi era l’Italia quaranta anni fa ? No certo,  ma era un paese che, con  duri conflitti, legava sviluppo economico ad  eguaglianza sociale.

Nell’estate del 1980 Umberto Agnelli, capo della Fiat per delega del fratello Gianni, in una intervista a La Repubblica annunciò che l’azienda avrebbe dovuto licenziare  a meno che non  si fosse svalutata la moneta. Gli rispose il ministro del Tesoro Andreatta, anche per conto del neo governatore della Banca d’Italia Ciampi. Entrambi stavano preparando la separazione della Banca d’italia dal Tesoro, che sarebbe avvenuta  nel 1982, cioè la fine della sovranità monetaria del paese e l’avvio del finanziamento del debito pubblico con il ricorso alla speculazione finanziaria. Questo anche in base al trattato sul Sistema Monetario Europeo, l’antesignano dell’Euro, a cui il governo DC PSI aveva aderito rompendo con il PCI di Berlinguer.

Andreatta dunque rispose ad Agnelli che lo stato non poteva più svalutare la moneta..e la Fiat licenziò. Era cominciata anche in Italia la svolta economica e sociale liberista, avviata nello stesso periodo da Reagan negli Stati Uniti e da Thatcher in Gran Bretagna. Tutti gli ultimi trenta anni, e qualcuno in più, sono serviti a realizzare quelle politiche; passo dopo passo, diritto dopo diritto, tutte le conquiste sociali del passato sono state distrutte o compromesse.

Però trenta anni sono tanti e il sistema  di potere finanziario, stressato dalla crisi a partire dal 2008, ha cominciato a pretendere tempi più rapidi per concludere la partita con lo stato sociale. Il segnale lo ha dato ancora una volta la Fiat con Marchionne nel 2010. Allora ai lavoratori di Pomigliano fu posto l’ultimatum: o rinunciate ai diritti o non avrete più lavoro.

Poi fu la volta di Draghi e  Trichet, che a nome della BCE nell’agosto del 2011 dettarono  ai governi  italiani il nuovo programma di “riforme”. Infine   la Banca Morgan si è fatta interprete della richiesta di resa finale dei conti, con il suo oramai famigerato documento del 2013 nel quale metteva  sotto accusa le costituzioni antifasciste;  per il freno che esercitavano ancora sul pieno realizzarsi della politica liberista. E così Renzi e Napolitano hanno risposto alla richiesta di una stretta finale sulle  regole,  venuta  dalle banche e del sistema di potere che domina la UE, con la costituzione sulla quale siamo chiamati a votare il 4 dicembre.

Se le radici della Costituzione del 1948 si trovano nella lotta e nella Resistenza antifascista, come disse Calamandrei, quelle della costituzione renziana affondano in tutta la regressione sociale e culturale del paese degli ultimi trenta anni. In un certo senso ne sono il riassunto,  la conclusione e la sistemazione in un potere autoritario. Renzi e i suoi vantano un risibile taglio ai costi della politica, per poter continuare ad operare giganteschi tagli ai diritti e alle spese sociali.

Non solo dunque è impossibile separare la controriforma costituzionale dal governo e dal leader politico che l’hanno prodotta e che sperano con essa di consolidare il proprio potere. Ma è mistificatorio non cogliere gli scopi economici e sociali della controriforma, che sono quelli voluti dalla Banca Morgan. Dunque il SI cambia la Costituzione, ma lo fa per conservare e rafforzare la politica liberista degli ultimi trenta anni. Mentre il NO conserva la Costituzione, ma per provare a cambiare le politiche che ci hanno portato al disastro sociale attuale.

Il NO deve essere un no sociale alla controriforma per essere compreso in tutta la sua portata di vero cambiamento. Per questo il 21 ottobre alcune coraggiose organizzazioni sindacali di base hanno indetto un sciopero generale e il  22 ottobre, assieme a movimenti e organizzazioni politiche, manifesteranno contro il governo e la sua controriforma nel NoRenziDay. Perché  il 4 dicembre non votiamo solo se il senato debba essere eletto o nominato, ma se la Repubblica debba ancora fondarsi sul lavoro, o definitivamente diventare la repubblica dei voucher.

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