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Tanuro, il capitalismo verde è impossibile

La crisi climatica, le mistificazioni del greenwashing, la prospettiva ecosocialista. Un video dell’ecologista belga Daniel Tanuro

di Daniel Tanuro

Per cominciare vorrei introdurre tre punti come contributo al vostro dibattito.

  1. Il primo riguarda la gravità della questione ecologica, con un particolare riferimento alla crisi climatica.
  2. Il secondo riguarda come il capitalismo affronta questa crisi.
  3. E il terzo verte sui problemi strategici che si pongono alla nostra corrente eurosocialista.

Sul primo punto, dunque sulla gravità della situazione, proprio due anni fa due gruppi di glaciologhi americani sono arrivati, con metodi empirici, con la osservazione, utilizzando però tecniche di osservazione differenti, sono arrivati alla stessa conclusione riguardo ad una piccola parte della calotta glaciale antartica est. La loro conclusione è stata che la dislocazione di questa calotta glaciale era iniziata ed era divenuta irreversibile, che il punto di non ritorno era stato già superato, qualunque cosa si faccia riguardo alla diminuzione delle emissioni e all’effetto serra e che l’aumento del livello degli oceani derivante da questa dislocazione sarebbe di circa un metro e venti centimetri in un lasso di due o tre secoli.

Questo significa che un aumento di 1,20 m o anche di 1,50 metri nel corso di questo secolo è del tutto possibile e perfino probabile, visto che questa piccola parte dell’Antartico Est non è che uno dei numerose contributi all’aumento del livello degli oceani, assieme alla dislocazione della calotta glaciale groenlandese, al riscaldamento delle masse di acqua che dunque si dilatano, allo scioglimento dei ghiacciai delle Ande, dell’Himalaya, delle Alpi, ecc.

Questa non è che una delle manifestazioni del cambiamento climatico. La cito solo a titolo esemplificativo, perché a lungo termine è quella più temibile. L’aumento del livello degli oceani è irreversibile. Una volta che il ghiaccio è diventato acqua, per realizzare l’operazione inversa ci vorrebbe evidentemente una nuova glaciazione. Ma non mi dilungo perché è noto a tutte e tutti voi: l’aumento del livello oceanico non è che una delle numerose conseguenze negative del riscaldamento globale. E che il riscaldamento globale non è che una delle manifestazioni (certo, la più spaventosa) della crisi ecologica planetaria provocata dal sistema capitalista.

Ancora qualche dato sulla gravità della crisi climatica, come elemento centrale della crisi ecologica. secondo il quinto rapporto del GIEC (Groupe d’experts intergouvernemental sur l’évolution du climat), il carbonio ancora disponibile nel periodo 2011-2100, se si vuole avere il 60% di possibilità di non superare di aumentare di non più di 2 gradi Celsius la temperatura media della superficie terrestre rispetto all’epoca preindustriale, cioè la quantità di carbonio che i può ancora diffondere nell’atmosfera per rispettare questo limite di 2 gradi sarebbe di mille gigatonnellate durente il periodo 2011-2100. Due gradi di aumento di temperatura media è comunque troppo, in particolare perché a lunghissimo termine, sul millennio, l’aumento di due gradi comporterà un aumento del livello delle acque di più di sei metri. Dunque una catastrofe incommensurabile, inimmaginabile, impensabile. Il carbonio utilizzabile per non superare un grado e mezzo di aumento della temperatura media superficiale, che è il secondo obiettivo fissato alla Conferenza di Parigi, alla COP 21, secondo lo stesso GIEC, nel suo quarto rapporto, è di 400 gigatonnellate., per lo stesso periodo 2011-2100. Occorre dire che l’umanità oggi emette un po’ più di 40 gigatonnellate di CO2 equivalente ogni anno. Questo significa che il carbonio utilizzabile per non superare il grado e mezzo è già per la metà consumato. Il calcolo era del 2011 e da allora sono trascorsi 5 anni: e dunque 5×40 fa 200; 400 – 200 significa che a questo ritmo in altri 5 anni avremo raggiunto il livello di carbonio consumabile entro la fine del secolo per restare sotto il grado e mezzo. E in un’altra ventina di anni avremo consumato il carbonio che ci fa arrivare a due gradi di aumento.

Tutto ciò situa bene il livello di pericolosità che noi, che l’umanità deve affrontare a causa della crisi ecologica e in particolare della crisi climatica.

E’ dunque assolutamente evidente che dunque in ogni caso la quantità di carbonio per non superare il grado e mezzo sarà superata e che probabilmente sarà superata anche quella per non superare i due gradi. Ciò significa che l’umanità se vuole evitare una catastrofe ecologica di grandissime dimensioni, non avrà altra soluzione che trovare modo di ritirare CO2 dall’atmosfera entro la fine del secolo.

Questo sarebbe possibile. Ci sono due grandi strade per realizzare questo obiettivo. La prima è quella dell’agricoltura biologica e di prossimità e la rilocalizzazione della produzione dovunque sia possibile, soprattuttto in ambito agricolo. Questa è una via che noi ecosocialisti dobbiamo sostenere. L’altra strada è quella capitalista, attraverso la geoingegneria da un lato e dall’altro attraverso l’appropriazione massiccia degli ecosistemi, per forzare gli ecosistemi a essere capaci di catturare carbonio e valorizzare nel ciclo capitalistico questa capacità degli ecosistemi.

Questo per dire brevemente sulla crisi ecologica.

Qual è la politica climatica di fronte a tutto questo?

Ci sono disaccordi tra di noi, anche all’interno della Quarta Internazionale e più in genetrale nella sinistra ecosocialista su questo argomento. Io credo, si tratta di un’opinione del tutto personale e criticabile, penso che dobbiamo evitare ogni escatologia, ogni discorso sulla fine del mondo. Penso che le élite del capitalismo internazionale sono assolutamente convinte della serietà del cambiamento climatico e della situazione che ne consegue. Sono convinte della gravità della cosa e cercano una via d’uscita. Non è la prima volta che il capitalismo sembra di fronte ad un vicolo cieco assolutamente inaggirabile. Ricordiamoci del diciannovesimo secolo, prima dell’invenzione dei fertilizzanti sintetici, quando alcuni prevedevano una crisi ecologica altrettanto irreversibile. Si trattava della rottura del ciclo del nutrimento e dunque il rapido degrado del potenziale di fertilità dei suoli che perdevano l’apporto degli escrementi umani. E’ il segnale d’allarme lanciato da Liebig e ripreso anche da Marx. Ma poi il capitale e la scienza al suo servizio ha creato i fertilizzanti chimici, i nitrati in particolare che hanno permesso al capitalismo e all’agrobusiness per tutto un secolo di superare e spostare il limite e gli ostacoli. Non li hanno eliminati evidentemente ma sono riusciti a spostarli in avanti, rinviando il problema e rendendo il sistema più complesso e ad un livello più elevato.

Oggi possiamo constatare che i nitrati contribuiscono al cambiamento climatico, in quanto fonti di ossido nitroso che è un gas dal potente effetto serra. Inoltre la fabbricazione dei nitrati necessita di enormi quantità di energia, e dunque di energia fossile. In terzo luogo, i nitrati sono responsabili di un grave inquinamento delle acque e, soprattutto se utilizzati oltre un certo limite, provocano l’eutrofizzazione delle acque che è una sorta di asfissia della vita nell’ambiente acquatico. Infine sono dannosi per la salute, dato che il nitrato nel sangue umano e dei mammiferi in generale riduce la capacità dell’emoglobina di fissare l’ossigeno.

Credo personalmente che occorre attendersi, mutatis mutandis, anche se su scala diversa una risposta di quel tipo da parte del sistema capitalistico. Quando si leggono le numerose pubblicazioni disponibili in quantità enorme di chi, con serietà, non contesta la gravità del cambiamento climatico, in particolare quelle di un organo estremamente influente come laGlobal Commission on the Economy and Climate copresieduta da Nicholas Stern, autore già nel 2007 di un rapporto sull’economia nel cambiamento climatico. Leggendo quei documenti, che hanno pesato molto sull’accordo raggiunto a Parigi nel COP 21 si può cominciare a sviluppare un’idea di ciò che dovremmo attenderci da qui alla fine del secolo. Non è la fine del mondo, non è la catastrofe totale, assoluta ma è un insieme di elementi che vorrei brevemente elencare.

In primo luogo alcune catastrofi gravi, non la catastrofe assolta, la fine della vita, la fine del mondo. Penso che queste siano esagerazioni. Ma alcune catastrofi estremamente gravi. Si può dire che alcune di esse sono già di fronte a noi. Si stanno sviluppando e approfondendo in modo grave. E’ evidente che un metro e mezzo di innalzamento del livello degli oceani entro la fine del secolo, cosa che ripeto è una prospettiva del tutto probabile, costituisce già di per sé una catastrofe. Ci sono dieci milioni di egiziani che vivono nel delta del Nilo su terre a un livello inferiore al metro sul livello del mare. Ci sono centinaia di milioni di persone che nel mondo vivono su terreni al di sotto del metro. Ci sono paesi interi che a causa di questo innalzamento oceanico sono minacciati di sparire dalla carta geografica, in particolare nel Pacifico.

Inoltre questo non è che un aspetto. Occorre tener conto della moltiplicazione delle siccità, delle inondazioni, dei fenomeni meteorologici estremi di cui si sa che riversano le proprie conseguenze sui più poveri nelle nostre società e i più poveri nei paesi poveri.

Quanto è accaduto nel 2005 a New Orleans è il paradigma emblematico di tutto ciò.

Dunque questo è il primo punto. Catastrofi. Non la catastrofe totale, ma catastrofi.

Questo pone problemi sociali, politici e economici di grande dimensione.

Il secondo elemento della risposta capitalistica a questa situazione è quello di una nuova grande ondata di appropriazioni degli ecosistemi e della loro capacità di assorbire il carbonio.

E’ un fenomeno già in corso, in particolare nei paesi del Sud, in America latina, in Africa, in Indonesia. E’ il gettarsi del capitale sulle foreste o su ecosistemi artificiali, con piantagioni di alberi al fine di assorbire la CO2 per compensare le emissioni di CO”” di origine fossile in particolare nei paesi capitalisti sviluppati.

Il terzo elemento sarà lo sviluppo, non saprei dire oggi su quale scala, delle tecnologie cosiddette ad emissioni negative, le tecnologie geoingegneristiche che permetterebbero di estrarre CO” dall’atmosfera. Per far cosa? E’ questa la grande domanda. Esistono già alcune tencologie di questo tipo. Quella più matura è quella della bioenergia con cattura e estrazione di carbonio. In che cosa consiste? Consiste in poche parole nel rimpiazzare negli impianti di combustione l’uso del carbonio fossile con quello della biomassa. Naturalmente questa biomassa deve venirae da qualche parte, occorre che sia piantata e raccolta. Esistono simulazioni e studi scientifici che dicono che questa tecnologia perché abbia un impatto sul clima e sul volume di carbonio nell’atmosfera necessiterebbe che si sviluppassero piantagioni di biomassa equivalenti al 15-20% della superficie agricola planetaria attuale. Questo sequestrerebbe questa superficie. E dunque che ci resterebbe la scelta tra la peste e il colera. La peste sarebbe quella di una riduzione della produzione agricola al fine di produrre biomassa energetica e il colera sarebbe quello della distruzione di ecosistemi naturali o seminaturali (in realtà ecosistemi completamente naturali non ne esistono più) comunque non coltivati per trasformarli in “deserti verdi” di piantagioni e monocolture di eucaliptus o di piante simili energetiche con uso massiccio di pesticidi e di fertilizzanti chimici e con la deportazione di popolazioni indigene e rapida distruzione della biodiversità.

Il quarto elemento nasce direttamente da quanto ho detto. Una recrudescenza, un aumento delle tensioni sociali e delle tensioni ambientali a causa di queste politiche con in particolare colpi gravi alla biodiversità e ai diritti dei popoli indigeni e delle popolazioni contadine.

L’elemento seguente di questo scenario è la necessità di trovare una soluzione per la bolla di carbonio, un’espressione che descrive il fatto che, per avere il 60% di speranza di non superare i due gradi di aumento della temperatura media superficiale entro la fine del secolo occorre che almeno i ⅘ delle riserve note di combustibili fossili non sia mai estratte e restino sottosuolo. Ma queste riserve sono di proprietà delle multinazionali o di stati petroliferi o carboniferi (che d’altra parte funzionano come imprese capitaliste: l’Arabia detta Saudita o gli Emirati del Golfo, per esempio). Ciò significa che queste riserve sono iscritte nell’attivo di bilancio di queste imprese o di questi stati capitalisti. Lasciarle sottosuolo costituirebbe una distruzione di capitale. Dunque la “bolla del carbonio” come la “bolla immobiliare” del 2008.

Anche sui questo ci si orienta verso una soluzione analoga a quelle che il capitale ha trovato al momento della crisi bancaria, cioè far pagare la collettività le spese dello scoppio della “bolla”.

In questo caso si tratterà di una bolla estremamente grande. Occorre dire che il sistema energetico nel suo insieme a livello mondiale, pur lasciando da parte l’agricoltura che in realtà fa parte anch’essa del sistema energetico, ha un valore, secondo l’ONU, pari ad un quinto del PIL mondiale. Non tutto questo fa parte della “bolla” ma una gran parte degli impianti, delle raffinerie, delle miniere di carbone, delle centrali elettriche a combustione dovrebbero essere chiusi ben prime di aver ammortizzato il capitale.

E l’ultimissimo elemento di questa politica capitalista si colloca sul piano della sua elaborazione, cioè del meccanismo politico che permette di determinarlo. Si tratta di un approfondimento dell’espropriazione politica dei popoli, della negazione della democrazia nell’elaborazione di questa politica. Anche questo fenomeno è già cominciato, in particolare alla COP 20 di Lima, quando i governi hanno deciso di creare quello che hanno chiamato un “dialogo strategico di alto livello”, cioè un dialogo tra chi e chi? Tra un alto gli stati più potenti e, dall’altro, un consorzio delle multinazionali più importanti del mondo. Questo “dialogo strategico di alto livello” ha portato all’accordo della COP 21. Non è esagerato dire che l’accordo della COP 21 è stato per l’essenziale scritto dal grande capitale internazionale.

Non siamo dunque più in uno scenario di lobbing in cui i gruppi capitalistici fanno pressione sui poteri politici. Siamo più in là. Siamo in uno scenario che peraltro conosciamo già a livello del funzionamento dellUnione europea, che è già uno scenario di coelaborazione, di coelaborazione delle politiche da parte dei grandi gruppi capitalistici associati ai funzionari dei principali stati boghesi.

Ci stiamo orientando verso questo e dunque, in relazione con questo, piuttosto che entrare in discorsi escatologici sulla catastrofe finale che sopprimerà la vita nel pianeta, che sopprimerà il pianeta stesso, ritengo che noi ecosocialisti dobbiamo porre la questione: “Noi vogliamo questo mondo?”, vogliamo un mondo con queste catastrofi, con i rifugiati climatici, con i poveri come vittime principali, vogliamo un mondo talmente impoverito quanto a biodiversità, con una natura a buon mercato, impoverita, semplificata e operazionalizzata dal capitale, vogliamo che le collettività paghino il prezzo della “bolla di carbonio”, vogliamo che la democrazia, o quel che resta della vita democratica sia completamente svuotata di sostanza?

Credo che sia attorno a queste domande che si può costruire e far avanzare le idee dell’ecosocialismo.

Per concludere rapidamente. Qual è la nostra principale difficoltà in questo quadro.

La nostra principale difficoltà strategica è la classe operaia, il movimento operaio e il movimento sindacale. Abbiamo alleati importanti nella lotta climatica: il movimwento contadino è un punto importante, è in prima linea; i popoli indigeni sono in prima linea attraverso la difesa della foresta; la gioventù in molti paesi gioca un ruolo chiave, l’abbiamo visto a Notre Dame des Landes contro la costruzione dell’aeroporto, l’abbiamo visto negli Stati uniti con la lotta contro alcune misure governative. E in queste tre categorie di popolazione (contadini, indigeni, giovani), le domme giocano un ruolo di primissimo piano.

Esistono dunque punti forti, ma il grande punto debole è evidentemente la situzione della classe operaia e del movimento operaio. Questa situazione, questa difficoltà non cade dal cielo. Tutti la comprendono facilmente. Storicamente, in quanto classe, la classe operaia non ha alcun interesse a collaborare al produttivismo capitalista, alla crescita capitalista, alla produzione di tutti questi valori di scambio, a questo culto del produrre sempre di più, sempre più velocemente e sempre più lontano. Ma individualmente ogni lavoratore è incatenato a sperare che la propria impresa cresca, aumenti in produttività, conquisti fette di mercato. Perché il suo salario dipende da questo.Da questo dipendono le sue condizioni di vita di giorno in giorno.

E’ questa la grande difficoltà. Il movimento sindacale, in questo contesto, occorre dire questa verità, la maggioranza delle direzioni sindacali tradizionali aderiscono al progetto capitalista di transizione verso un “capitalismo verde”., che è il capitalismo che ho appena descritto, fatto di impoverimento, catastrofi, ecc.

In particolare la Confederazione sindacale internazionale (CISL), secondo me, è maggioritariamente su questa posizione. Non a caso la segretaria generale della CISL internazionale fa parte della Global Commission on the Economy and Climate, presieduto da Nicolas Stern e che un organismo importantissimo nell’elaborazione della politica climatica capitalista. L’illusione di queste direzioni sindacali è basata sul pensare che la transizione, così come la concepisce il capitale, creerà posti di lavoro. Secondo me è un’illusione molto grave. Si creano molti più posti di lavoro con una politica ecosocialista a condizione di assumere la decisione radicale, senza la quale non è razionale e coerente di mettere in atto la crescita, e cioè la riduzione radicale, generalizzata degli orari di lavoro, senza riduzione di salario e con assunzioni compensative e con una importante riduzione dei ritmi di lavoro.

E’ questa la grande difficoltà, il grande problema strategico che abbiamo di fronte, a cui occorre tentare di rispondere. Secondo me non c’è modo di affrontare questa situazione senza prendere in conto un certo grado di conflittualità con le organizzazioni tradizionali del movimento operaio, in ogni caso con le loro direzioni.

Questo semplicemente perché bisogna dire la verità, Come diceva Rosa Luxemburg, “Solo la verità è rivoluzionaria” e la verità è che non c’è soluzione né transizione giusta e possibile, come dice la CISL internazionale, senza una rimessa in discussione profonda della logica della crescita e del meccanismo della crescita capitalistica e cioè la corsa al profitto e la corsa agli investimenti per aumentare la competitività.

D’altra parte, tra parentesi, nella risoluzione per una transizione giusta, adottata dalla CISL internazionale a Vancouver, si fa notare che la transizione deve effettuarsi nel rispetto della competitività delle imprese, comprese dunque le imprese dell’energia fossile…

Quindi, questo discorso sulla transizione è un discorso che maschera nei fatti la subordinazione al progetto, all’utopia del “capitalismo verde”, in ogni caso alla risposta capitalista alla crisi ecologica e alla crisi climatica.

Quyando dico un certo grado di conflittualità che cosa intendo dire? Voglio dire che noi non dobbiamo allinearci sul sentimento spontaneo e individuale dei lavoratori che hanno paura di perdere il posto di lavoro.se si rimettono in discussione le produzioni sporche, se si rimette in discussione il produttivismo.

Non è una politica da Don Chisciotte quella che io sostengo. Io sono assolutamente convinto che sotto la superficie, soto questa riflessione spontanea dei lavoratori presi individualmente, gli stessi individui lavoratori hanno una consapevolezza estremamente forte del fatto che il sistema non può continuare così, che non si può continuare con un sistema capitalista che produce sempre più, sia merci sia ineguaglianze sociali, che bisognerebbe soddisfare i bisogni umani fondamentali, in modo democratico, bisognerebbe, per così dire, saturare la domanda di questi bisogni e redistribuire la ricchezza piuttosto che creare ricchezze supplementari.

Bisogna dunque tentare di elaborare delle strategie nelle quali la conflittualità, compreso verso settori tradizionali del movimento operaio, possa servire da leva per entrare in dialogo con i lavoratori e con il movimento operaio. e per ridefinire le linee programmatiche all’interno del movimento operaio.

E, in tutta verità, penso che sia possibile.

Voglio dare un solo esempio e poi concluderò il mio intervento.

la lotta contro il nuovo aeroporto di Notre Dame des Landes è una lotta esemplare, condotta da settori sociali molto diversi, una lotta che ha vinto proprio perché è stata conflittuale. Perché era conflittuale è riuscita a spingere la CGT a cambiare posizione. La CGT del settore ha preso posizione contro il progetto dell’aeroporto di Notre Dame des Landes. E si potrebbero fare molti altri esempi di questo tipo.

Quest’estate in Germania c’è stato un altro bellissimo esempio durante il Klima Camp, organizzato nella Renania-Westfalia contro le miniere di lignite: il sindacato dell’impresa RVE che è uno dei quattro giganti energetici tedeschi, in nome della difesa dell’occupazione nelle miniere di lignite, ha organizzato una manifestazione di protesta contro la tenuta del Klima Camp nella regione. E questa presa di posizione ha provocato un dibattito all’interno del movimento sindacale anche al di là della RVE, coinvolgendo diversi sindacalisti impegnati a vari livelli dell’organizzazione, che hanno detto: “no, non è questa la strada da seguire, occorre in realtà abbandonare la lignite, come abbiamo abbandonato l’energia nucleare, ecc”.

Dunque, occorre osare la conflittualità, occorre non allinearsi sul discorso mainstream sulla transizione dominante all’interno del movimento sindacale. E’ questo il discorso che occorre seguire come militanti ecosocialisti. Naturalmente occorre farlo in modo intelligente, cioè cercando delle alleanze, dei collegamenti all’interno delle forze del movimento operaio organizzato.

Bene, mi fermo qui, sono stato già troppo lungo e vi auguro buoni lavori nella vostra Conferenza.

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