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Ilaria Alpi e Miran Hrovatin, finale già scritto: nessun colpevole

Assolto Hassan, senza nome gli assassini di Ilaria Alpi e Miran Hrovatin. 23 anni di depistaggi. La cooperazione italiana in Somalia era un paravento per mascherare i affari che odoravano di sangue. E Ilaria lo sapeva

di Enrico Baldin

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Nessun colpevole. Ancora una volta. L’Italia ha riempito pagine della sua storia con quella triste e infamante dicitura: «Nessun colpevole». Assolto l’unico incriminato, il povero Omar Hassan – altra vittima di questa vicenda – che si è fatto sedici anni di carcere incolpato da un finto testimone dell’omicidio di Ilaria Alpi e Miran Hrovatin, e che ora ha avuto giustizia. Ma l’ingiustizia di un omicidio senza colpevoli si perpetua ancora una volta e viene impressa anche sul caso Alpi-Hrovatin. Quando entrano in scena depistaggi, sparizioni e scandali, quando nel filone rientrano servizi segreti e materiale scottante, in genere è chiaro da subito che la vicenda non finirà bene.

Certe tragedie, certi omicidi, hanno il finale già scritto nei fatti. Stava scritto sin dalle prime ore dopo l’omicidio di Ilaria e Miran, quando svanirono nel nulla taccuini e videocassette e quando nessuno – tranne il funzionario cimiteriale – aveva pensato che forse, prima di tumulare Ilaria, andava aperta una inchiesta. Stava scritto nelle dichiarazioni truffaldine del generale Fiore – comandante del contingente militare italiano in Somalia – sul recupero delle salme, e stava scritto in quell’omissis dei servizi segreti sulle minacce già rivolte ad Ilaria alcuni giorni prima che si concretizzassero in estreme conseguenze.

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Certe storie hanno il finale già scritto, perché più o meno da quando iniziano si capisce già come andrà a finire. E se non se ne fosse certi, è l’evolversi dei fatti a confermare quelle angoscianti impressioni. In questa storia è anche il “tempismo” con cui è stata chiesta l’autopsia sul corpo di Ilaria (due anni dopo la sua sepoltura) a suggellare il sospetto che la verità non debba emergere. E poi ci sono perizie e controperizie balistiche che si smentiscono l’una con l’altra, inchieste che passano da un magistrato all’altro senza che si fosse veramente indagato a fondo. Perché in questa storia in cui a morire è stata una giornalista, a indagare davvero e sul serio sono stati quasi esclusivamente dei giornalisti. E quando un magistrato che scava a fondo arriva a buon punto (fu il caso del magistrato Giuseppe Petitto) gli si toglie l’inchiesta e lo si destina ad altro incarico.

Sono storie, queste, un po’ strane, in cui la gente muore e certe piste scompaiono. Per esempio il somalo che guidava la jeep in cui si trovavano Ilaria e Miran mentre furono assassinati, scomparve pochi giorni dopo che dall’Italia volò a Mogadiscio, appena dopo aver promesso importanti rivelazioni. Con lui scomparve anche un altro teste chiave (poi riapparso) e svanirono nel nulla – secretate e indisponibili per l’istruttoria – anche le conclusioni a cui arrivarono dopo le rispettive indagini il Sisde e la Digos di Udine. Conclusioni assonanti che indicavano mandanti (italiani e somali) ed esecutori e che parlavano di una riunione in cui si sarebbe deciso l’omicidio e le sue modalità. Indisponibili per i magistrati, secretate.

E se in una storia ci fosse un prima, pure quello parlerebbe chiaro. E odorerebbe di “già scritto”. In questa tragedia c’è un prima, e odora davvero di finale già scritto. Perché col senno di poi lo si spiega così quell’aereo militare che doveva riportare a casa i due inviati del Tg3 e che invece li ha lasciati a terra. Ed assumerebbe gli stessi connotati anche quella telefonata che invitava Ilaria ad andare nel posto in cui poi trovò la morte. E volendo vedere ancora più indietro odora di finale già scritto anche l’assassinio avvenuto pochi mesi prima proprio in Somalia del sottufficiale del Sismi Vincenzo Li Causi. Omicidio per rapina si disse. Ma intanto Ilaria Alpi perse la sua fonte informativa segreta più preziosa, quella che già l’aveva messa sulla strada giusta in certe inchieste.

Omicidio a scopo di rapina. Già. La stessa cosa che sarebbe accaduta ai due inviati del Tg3. Questo almeno secondo le conclusioni della commissione parlamentare d’inchiesta presieduta dall’onorevole Taormina, che qualche anno dopo – nel 2011 –  ad una trasmissione radiofonica aggiunse anche che Ilaria Alpi si trovava in Somalia «per fare una vacanza». In quel genere di storie, la vittima spesso viene uccisa una seconda volta, infangandola, offendendola, minimizzandola nel suo lavoro.

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In Somalia nel 1994 c’era una guerra e la gente moriva di fame. Ma con la facciata della cooperazione internazionale e degli aiuti umanitari, si seppellivano rifiuti tossici nocivi provenienti dal nord del mondo, anche dall’Italia. Si commerciavano armi dando ai poveracci non cibo, ma gli strumenti con cui uccidersi. La cooperazione era solo un paravento per mascherare i più sporchi affari che odoravano di sangue e di morte. Ilaria lo sapeva e quel suo settimo viaggio in Somalia era finalizzato a dimostrare quanto aveva già capito, e probabilmente c’era riuscita.

Ma tant’è, gli assassini di Ilaria e Miran dopo ventidue anni non ci sono, non si trovano. E questa, nell’Italia dei depistaggi e dei misteri, pare una di quelle storie già scritte di cui sai già qual è il finale, anche se speri sia diverso.

 

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