Sul palco del Teatro della Tosse di Genova allestito da Carlo De Marino vivono le detenute di “Città Inferno”. Una prima nazionale
da Genova, Claudio Marradi
Sei donne rinchiuse nello spazio ristretto di una piccola cella di una prigione, immaginaria ma non troppo: i letti sui quali è impossibile dormire da sole, il piccolo spazio per cucinare, un gabinetto a vista che non concede alcuna intimità. Tra di loro piomba direttamente dall’anno 2016, come scaraventata da un capriccioso imbuto spazio-temporale, una settima reclusa che non ricorda altro che la sera prima era in compagnia del suo fidanzato. Non sa nulla dei motivi che l’hanno condotta lì e continua a professare la sua innocenza. Come tutte, del resto.
Sul palco del Teatro della Tosse di Genova allestito da Carlo De Marino, che lo ha disseminato di statue in gesso della Vergine come a restituire la cifra di un’ipoteca tutta cattolica all’insegna della quale si articola tradizionalmente il senso dell’espiazione della pena nell’universo carcerario femminile, vivono le detenute di “Città Inferno”, produzione di Cardellino srl, Fondazione Luzzati-Teatro Della Tosse e nO (Dance first. Think Later) al debutto in prima nazionale con regia e partiture fisiche di Elena Gigliotti.
Pensato come un musical dagli accenti fortemente blues di dolori e abbandoni, anche nei frequenti stacchi di musica elettronica in cui la scrittura scenica si fonde con la danza e liberamente ispirato al film “Nella Città, l’inferno” di Pietro Castellani, il testo dichiara il suo debito cinematografico fin dai titoli di apertura, proiettati in bianco e nero sulla superficie di un lenzuolo steso ad asciugare nella lavanderia del carcere e sulla scansione in primo e secondo tempo dello spettacolo.
Rachele Canella, Melania Genna, Elena Gigliotti, Carolina Leporatti, Demi Licata, Elisabetta Mazzullo, Daniela Vitale le interpreti di altrettante recluse: assassine dei propri figli, mogli colluse di boss mafiosi, fattucchiere e ladre seriali provenienti da tutta Italia e realmente esistite, collocate in un tempo che non esiste, dagli anni Quaranta a oggi.
Ognuna piena del suo crimine e del suo vissuto, diversi per ognuna eccetto che per il fatto che sono donne. Hanno un corpo inequivocabilmente declinato al femminile, anche se fra di loro si è voluto inserire la presenza di Roberto Succo, serial killer che aveva sterminato padre e madre e si suiciderà in carcere con un sacchetto platica. E sono quindi madri e mogli, fidanzate e amanti. Che hanno amato e ameranno ancora, pagandone il prezzo sui loro corpi reclusi fino in fondo. Perché è spesso proprio per amore di uomo sbagliato che si sono messe nei guai. Ed è sempre al pensiero della stessa figura maschile che associano e delegano il proprio desiderio di libertà, come a un principe azzurro che venga finalmente a liberarle e fugga assieme a loro. Un sogno proibito che tuttavia a volte si realizza, almeno in apparenza.
Come il 3 gennaio 1982 quando Sergio Segio, militante di spicco dell’organizzazione armata Prima linea assalta con un gruppo di fuoco il carcere femminile di Rovigo e ne abbatte il muro perimetrale a colpi di tritolo per liberare la sua compagna, di militanza e di vita, Susanna Ronconi e tre altre compagne di cella. Sembra il lieto fine di una fiaba carceraria, sporcato dalla morte di Angelo Furlan, un passante travolto dall’esplosione mentre portava a passeggio il cane. E’ solo un altro tassello di una storia della guerra civile italiana su cui sono calati troppi omissis.