Sanders e Warren lanciano la candidatura di Keith Ellison, il primo musulmano a entrare nel Congresso. Sotto accusa il sistema elettorale. 4,5 milioni persone chiedono ai grandi elettori di non votare Trump
di Giulio AF Buratti
«I Democratici vincono quando usano il potere della gente comune e lottano per risolvere i suoi problemi. Non è sufficiente chiedere il sostegno degli elettori ogni due anni. Dobbiamo essere con loro ogni volta che perdono una busta paga, ogni aumento delle tasse scolastiche, e ogni volta che qualcuno è vittima di un hate crime, un crimine di matrice razzista. Quando gli elettori democratici sapranno per cosa ci battiamo, allora saremo in grado di cambiare le loro vite». Un nero e musulmano per il ‘dopo Hillary’, che gode del sostegno di Sanders e Warren. Il deputato democratico afroamericano Keith Ellison ha formalmente annunciato la sua candidatura per la presidenza del comitato del partito democratico (Dnc), ovvero per la guida del partito dopo la sconfitta elettorale. Ellison ha 53 anni, è del Minnesota, divorziato con quattro figli, al quinto mandato al Congresso, dove è stato anche il primo deputato di fede islamica. Un volto giovane, abile oratore, efficace nei dibattiti in tv come in parlamento, un simbolo del multiculturalismo, della multietnicità, ha già l’appoggio dei senatori Bernie Sanders ed Elisabeth Warren, le due icone dell’ala liberal (la sinistra) del partito. Anche il leader uscente della minoranza democratica al Senato, Harry Reid, offre il suo sostegno ad Ellison per la presidenza del partito. Se Hillary avesse vinto avrebbe potuto dare lei l’indicazione per la nuova guida ma il Dnc ha giocato troppo sporco nelle scorse primarie: Debbie Wasserman Schulz, l’ex leader, si è dovuta dimettere quando si è scoperto che stava segretamente favorendo Clinton su Sanders.
Bernie Sanders, intanto, si sente «profondamente umiliato» dal fatto che milioni di elettori bianchi della classe operaia abbiano «voltato le spalle al partito democratico» e, spinti dalla rabbia verso i tradizionali referenti politici, abbiano dato il loro voto e la vittoria a Donald Trump. Ma nello stesso tempo il senatore del Vermont, che è stato l’avversario di Hillary Clinton nelle primarie, ha affermato che la democratica avrebbe vinto le elezioni senza il superato sistema del collegio elettorale, dal momento che ha vinto ampiamente il voto popolare. «Vengo da una famiglia di lavoratori bianchi e sono profondamente umiliato dal fatto che il Partito Democratico non sappia più parlare alla mia gente», ha detto l’anziano senatore che ha avuto un exploit alle primarie vincendo, grazie al voto operaio, proprio in stati come il Michigan e il Wisconsin, dove Trump ha segnato le vittorie decisive. Il senatore però non ha voluto rispondere quando gli è stato chiesto se crede che, se fosse stato lui il candidato, avrebbe potuto sconfiggere Trump: «non so come rispondere, forse sì, forse no. Ma so che il partito democratico si deve mettere al fianco dei lavoratori di questo Paese, ascoltare la loro sofferenza ed attaccare la classe dei miliardari, Wall Street e le compagnie farmaceutiche».
«Credo che ci sia bisogno un profondo cambiamento nel Partito democratico, non basta più avere l’appoggio delle elite liberal», ha aggiunto Sanders. «Ora è arrivato il momento di un nuovo modo di pensare ed un nuovo inizio al partito democratico, è il momento di Keith», ha detto il 77enne senatore del Nevada che a gennaio si ritirerà dalla politica. Anche il prossimo minority leader, il senatore newyorkese Chuck Schumer, ha dato la sua benedizione alla nomina di Ellison che nel 2015 era stato tra i pochi tra i democratici a prendere sul serio la candidatura di Trump ed esprimere preoccupazione. «Noi in Minnesota abbiamo avuto Jesse Ventura governatore: nessuno pensava che potesse vincere – disse – ma, credetemi, le cose più strane possono succedere».
Il vantaggio di Hillary Clinton nel voto popolare continua a crescere. Alla fine della scorsa settimana, la candidata democratica, che martedì è stata sconfitta da Donald Trump che ha ottenuto 289 voti elettorali, aveva 1,8 milioni in più di voti in tutto il Paese. E il New York Times ha stimato che una volta che saranno conteggiati i voti di tutti gli stati, Clinton alla fine avrà oltre due milioni di voti in più, vale a dire un vantaggio di 1,5% del voto popolare. Come è noto, questo non ha alcun significato perché Trump ha vinto, ed in modo netto, la maggioranza dei voti elettorali che i Grandi Elettori esprimeranno durante la riunione del Collegio Elettorale il 19 dicembre prossimo. Ma, come successe nel 2000 dopo la sconfitta di Al Gore, che vinse sempre il voto popolare, con un vantaggio di mezzo milione di voti, anche quest’anno si riapre il dibattito sulla sostenibilità politica del sistema che i padri fondatori scelsero per eleggere il presidente. «Vogliamo forse guardare nel suo insieme il sistema del collegio elettorale, che sta facendo insediare un presidente che non ha ottenuto la maggioranza dei voti, questo è qualcosa che deve essere discussa seriamente», ha affermato, in un’intervista ad Usa Today, Bernie Sanders. Non è solo questo a rendere iniquo il sistema del collegio elettorale, ma anche il fatto che questo sistema concentra tutta l’attenzione della campagna elettorale solo su un pugno di stati, e sulle loro necessità. «Questa campagna è stata decisa in 15 stati, i ‘battleground state’ – ha argomentato – al mio stato, il Vermont, che è solidamente democratico, nessuno ha prestato attenzione. Come nessuno ha prestato attenzione al Wyoming, che è repubblicano: ma questo è un sistema giusto?». Alla domanda diretta se bisognerebbe quindi cambiare il sistema Sanders ha risposto: «credo che dobbiamo pensarci, dobbiamo ripensarlo». E sono molti gli americani che sono convinti che il sistema debba essere cambiato e sognano di rovesciarlo subito: ha raccolto oltre 4,5 milioni di firme la petizione, pubblicata su Change.org, in cui si rivolge un appello ai Grandi Elettori chiedendo loro di votare per Clinton, vincitrice del voto popolare, e non per Trump il 19 dicembre. Del resto la stampa americana in questi giorni ha ricordato come lo stesso Trump nel 2012 criticò, in una delle sua famose tempeste di tweet, il sistema chiamandolo «un disastro per la democrazia».