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Salviamo l’umanità e l’ambiente da Trump

Trump, il nuovo presidente Usa non è solo un miliardario razzista, islamofobo, sessista, complottista, autoritario e nazionalista: è anche uno che sostiene che il cambiamento climatico è una bufala

di Daniel Tanuro
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Non è un granello ma un sacco di sabbia quello che l’elezione di Donald Trump mette nell’ingranaggio dell’accordo climatico che le potenze capitaliste hanno penosamente portato al fonte battesimale della COP21 un anno fa a Parigi.

In effetti, il nuovo presidente statunitense non è solo un miliardario razzista, islamofobo, sessista, complottista, autoritario e nazionalista: è anche un portavoce politico dei «climato-negazionisti», questa nebulosa di falsi esperti pagati dal capitale fossile per sostenere che il cambiamento climatico è una bufala.

La colpa è dei cinesi e degli ecologisti…

Nel corso della campagna elettorale, Trump ha dichiarato che il riscaldamento globale era un «concetto creato dai cinesi, allo scopo di rendere non competitiva l’industria manifatturiera USA». Una dichiarazione idiota, poiché la dipendenza dell’economia cinese dai combustibili fossili è maggiore di quella dell’economia USA. Ma sorvoliamo …

Sette cittadini statunitensi su dieci pensano che il riscaldamento è una realtà. Il problema è che questa maggioranza è fragile, e tende a diminuire quando teme che la protezione del clima può minacciare le sue condizioni di vita.(1) Trump non ha fatto campagna sul clima, ma quando si è pronunciato sul tema, lo ha fatto in maniera demagogica, amalgamando gli accordi climatici e gli accordi di libero scambio, allo scopo di sviare la rabbia dei lavoratori dai padroni per orientarla verso «i cinesi» e gli ecologisti.

Dagli all’accordo di Parigi …

Ricordiamo che l’accordo di Parigi presenta due parti: una dichiarazione d’intenti a favore di un riscaldamento limitato molto al di sotto di 2°C, o anche di 1,5°C, e «contributi determinati nazionalmente» (NDC), in altri termini i «piani climatici» dei diversi paesi per lottare contro il cambiamento climatico.(2)

Consapevoli della forza dei climato-negazionisti tra gli eletti statunitensi, in particolare i Repubblicani, i negoziatori della COP21 sono ricorsi a un’astuzia giuridica per far sì che il testo di Parigi non debba essere ratificato da due terzi del Senato USA: ne hanno fatto un accordo sussidiario nel quadro della Convenzione Quadro delle Nazioni Unite sui Cambiamenti Climatici (CCNUCC) – e non un trattato internazionale. Quindi, bastava l’impegno di Obama.

Inoltre, per far sì che il testo sia vincolante legalmente, si è immaginata una procedura complicata che ogni Stato dovrebbe seguire nel caso in cui volesse uscire dall’accordo – un vero percorso di guerra che richiede tre anni di procedure.(3)

Secondo alcune informazioni, Trump vorrebbe attaccare molto rapidamente questo dispositivo, per essere sicuro che gli impegni climatici saranno finiti nella pattumiera prima della fine del suo mandato. A questo fine, si orienterebbe verso una denuncia della CCUNCC adottata al vertice della Terra di Rio nel 1992 e che gli USA hanno ratificato. La procedura per il ritiro da questa Convenzione dura solo un anno; l’accordo di Parigi, concluso nel quadro della CCNUCC, decadrebbe automaticamente … ,

… e al «Clean Energy Plan»

Ma Trump non può limitarsi a denunciare la ratifica statunitense dell’accordo di Parigi. Deve anche e soprattutto smantellare le misure prese o previste nel quadro del «contributo determinato nazionalmente» degli USA alla lotta contro il riscaldamento.

Tale contributo si presenta essenzialmente sotto la forma del «Clean Power Plan»[Piano per l’Energia Pulita]. Sempre per evitare il voto al Senato, Obama ha dato il via al piano per decreto, non per legge. Il piano comprende una serie di misure di regolamentazione dettate dall’Agenzia per la Protezione dell’Ambiente (EPA). Lo scopo è di ridurre le emissioni di CO2 del settore elettrico (che rimane molto dipendente dall’uso del carbone) del 32% da qui al 2030, in rapporto al 2005.

Alla fine del 2015, una coalizione di quindici Stati carboniferi (diretti in maggioranza da Repubblicani, e capeggiati dalla Virginia Occidentale) ha portato in tribunale il Clean Power Plan sostenendo che il presidente avrebbe oltrepassato le sue prerogative interferendo nella politica energetica delle entità federate.(4)

Il ricorso dei contestatori è stato respinto, ma questi non hanno rinunciato alla lotta. Secondo loro, il piano di Obama ha lo scopo di «uccidere il carbone». In realtà, è soprattutto la concorrenza del gas di scisto a buon prezzo che minaccia il futuro delle miniere di carbone. Ma si trova sempre un bastone per bastonare un cane, e più di cento compagnie e 28 Stati dell’unione hanno intentato azioni legali. La Corte Suprema dovrebbe pronunciarsi all’inizio del prossimo anno.

Ci sarà lotta

Trump è in combutta con questi ambienti. Ora che è stato eletto presidente, il miliardario cercherà di dare soddisfazione ai suoi amici. Non sarà facile, poiché l’EPA ha agito nel quadro di un’importante legislazione ambientale – il Clean Air Act [Legge sull’Aria Pulita] 19063 – alla quale le/i cittadin/e/i sono attaccat/e/i a causa del suo impatto positivo dimostrato sulla salute pubblica.

Oltre al fatto che molte misure climatiche sono prese ad altri livelli (da Stati, città «in transizione», settori verdi del capitale, ecc.) le misure che l’EPA ha preso a favore del clima negli ultimi anni non possono essere cancellate con un tratto di penna. Ci sarà lotta, ed è chiaro che le associazioni ambientali e le comunità si batteranno accanitamente, nei tribunali e in piazza. Dovremo sostenerle.

In questa lotta, per Trump sono possibili tre vie: 1°) può designare giudici pro capitale fossile alla Corte Suprema; 2°) dare ordine all’EPA di rivedere le sue misure in senso più favorevole agli interessi dei carboniferi, e 3°) strangolare l’Agenzia per mezzo del bilancio in modo che sia costretta a ridurre le sue ambizioni. Evidentemente le tre vie possono essere combinate.

La decisione di Trump di nominare il climato-negazionista Myron Ebell a capo dell’EPA dimostra che in ogni caso il miliardario è ben deciso a dare battaglia, senza dubbio ben al di là della politica climatica(5): da buona sanguisuga capitalista, la legislazione ambientale, in generale, lo ostacola probabilmente allo stesso modo della legislazione sociale. Vedremo.

I fatti e le cifre

Nel frattempo, bisogna sapere che l’impatto di un ritiro degli Stati Uniti dall’accordo di Parigi sul clima sarebbe sicuramente considerevole.

Ricordiamo che il «contributo determinato nazionalmente» degli USA consiste nel ridurre le emissioni di gas serra del 26 al 28% da qui al 2025 rispetto al 2005. Dato che gli USA emettevano 7,38 GT di CO2 equivalente nel 2005, l’obiettivo per il 2025 corrisponde dunque a una diminuzione di circa 2GT.

Per misurare l’ampiezza del crimine climatico che Trump si accinge a perpetrare, notiamo dapprima che le 2GT rappresentano circa il 20% delle riduzioni di emissioni promesse dal 2016 al 2030 da parte dei 190 Stati che hanno ratificato l’accordo di Parigi…(6)

Si può completare l’immagine della scena del crimine misurando le 2 GT sul metro del fossato tra l’accordo di Parigi e i piani climatici nazionali (NDC)

Come si sa, c’è in effetti un fossato tra l’obiettivo della COP21 – rimanere ben al di sotto di 2°C di riscaldamento massimo rispetto all’era preindustriale, possibilmente non superare 1,5°C – e le proiezioni sulla base degli impegni dei governi nazionali: questi mettono in prospettiva un riscaldamento da 2,7 a 3,7°C da qui alla fine del secolo – il doppio dell’obiettivo.

L’accordo di Parigi stipula che le parti procederanno a revisioni periodiche per colmare il fossato, e il Programma delle Nazioni Unite per l’Ambiente (UNEP) pubblica ogni anno un rapporto sull’evoluzione di questo. L’edizione del 2016 è appena uscita. Vi si apprende che lo scarto tra le previsioni di emissioni sulla base di Parigi e la traiettoria di riduzioni da effettuare sarà nel 2025 di 5,3 GT per restare sotto i 2°C e di 5,8 GT per restare sotto 1,5°C (se tutti i paesi rispettano le loro promesse di riduzione, comprese quelle che sono condizionati dagli aiuti finanziari dei paesi ricchi alla transizione e all’adattamento dei paesi poveri, ad esempio.(7)

Un crimine climatico contro l’umanità

Abbandonare gli impegni climatici USA da parte di Trump, equivarrebbe a mettere il resto del pianeta davanti alla scelta seguente: o voi aumentate i vostri sforzi di riduzione delle emissioni del 20% per compensare il fatto che il paese più ricco del pianeta continuerà a bruciare combustibili fossili come niente fosse, in nome del profitto del suo settore fossile; oppure aggiungerete 2 GT di equivalente carbonio allo scarto tra quanto è stato deciso a Parigi e quanto si dovrebbe fare per stabilizzare il clima della Terra (ossia un aumento dal 30 al 50% della difficoltà).

È semplicemente rivoltante che tale scelta sia imposta a 7,2 miliardi di donne e uomini dal dirigente della principale potenza mondiale, principale responsabile storica delle emissioni di gas serra … quando questo dirigente è stato eletto solo da un quarto dei 240 milioni di elettori del suo paese, in maggioranza bianchi e maschi, al termine di una campagna piena zeppa di menzogne demagogiche.

Al di là dell’indignazione morale, bisogna tenere ben presente che Trump arriva al potere supremo nel momento in cui il clima della Terra è sul filo del rasoio. Il bilancio carbonio per 1,5°C (quantità di carbonio che può essere ancora immessa nell’atmosfera per avere il 60% di probabilità di non superare 1,5°C di riscaldamento) sarà esaurito entro il 2020, e il bilancio per 2°C entro il 2030. In altri termini: mentre ogni minuto conta, Trump minaccia di far perdere all’umanità quattro anni che faranno tutta la differenza tra catastrofi ancora riparabili (almeno si spera …) e un disastro climatico di grande ampiezza, irreparabile, non padroneggiabile e dalle conseguenze estremamente pericolose. È un crimine contro l’umanità.

Ribaltamento geostrategico

Fatto significativo, la Cina è stata la prima a mettere in guardia Trump contro un abbandono dell’accordo di Parigi. « È la volontà della società globale che tutti vogliano cooperare per combattere il cambiamento climatico» ha dichiarato un alto negoziatore cinese alla COP22 a Marrakech. Soprattutto, Pechino dice chiaramente che il paese rispetterà i propri impegni, anche se gli USA non rispettano i loro.(8) L’Unione Europea si è espressa nello stesso senso.

La reazione cinese segna un ribaltamento strategico completo rispetto alla sequenza precedente. Persino l’Arabia saudita è, per così dire, a sinistra di Trump: si impegna a rispettare le (magre) promesse del suo contributo nazionale alla lotta contro il riscaldamento.(9)

È evidente che nelle classi dominanti il vento è cambiato dopo le COP15 e 16 a Copenhagen e a Cancun. In effetti, non bisogna sbagliare: l’arrivo di Trump alla Casa Bianca si è fatto contro la volontà della maggioranza dei rappresentanti della grande borghesia, negli Stati Uniti e nel resto del mondo.

Ma non bisogna neanche farsi illusioni. In primo luogo, alcune reazioni non sono così ferme come quella della Cina. L’India, ad esempio, potrebbe essere tentata di prendere pretesto dal ritiro USA per mollare i propri sforzi climatici. Secondo, tutti i governi inviano messaggi molto cortesi di felicitazioni a Trump, come se la denuncia dell’accordo sul clima fosse una peripezia diplomatica senza grande importanza. Terzo, ed è decisivo, nessun paese, o gruppo di paesi, evoca la necessità di prendere misure d’urgenza per compensare l’eventuale ritiro USA, sviluppando di fronte al rischio climatico una politica all’altezza della minaccia.

Quello che interessa soprattutto i governi è sapere quali saranno le ripercussioni della politica di Trump sul loro posto nella gerarchia capitalista e sulle possibilità di profitto dei «loro» capitalisti. La Cina, ad esempio, non è motivata unicamente dalla sua vulnerabilità particolare al riscaldamento, ma anche dalla prospettiva che le si apre di strappare agli USA il ruolo di leader capitalista mondiale di una transizione energetica che tutti i responsabili borghesi dotati di un po’ di cervello sanno essere inevitabile. La logica del produttivismo capitalista basato sulla concorrenza e organizzato in Stati rivali è decisamente implacabile.

Né Trumpismo, né «capitalismo verde»: ecosocialismo!

Non si tratta dunque di difendere contro il malvagio Trump i buoni capitalisti che rispettano l’accordo di Parigi. Di fronte all’urgenza climatica, si tratta piuttosto, nell’immediato: 1°) di esigere dai governi che isolino e condannino categoricamente il futuro «governo canaglia» degli USA; 2°) di richiedere la creazione di una corte internazionale di giustizia climatica e minacciare di trascinarvi Donald Trump se mette in atto i suoi progetti; 3°) di fermare il folle treno della crescita capitalista, generatrice di ineguaglianze e di distruzioni per sostituirvi misure di ridistribuzione delle ricchezze, e di produzione nel rispetto dei limiti del pianeta.

L’accordo di Parigi rimane cattivo, non solo perché non riduce abbastanza le emissioni (10), ma anche perché tenta di ridurle – ed è in fin dei conti la ragione della sua insufficienza – nel quadro del produttivismo capitalista e per mezzo di meccanismi di mercato che aggravano la crisi sociale e la crisi ecologica.

Riguardo a questo bisogna ribattere il chiodo: la vittoria di Trump non è il prodotto dell’adesione della maggioranza del popolo statunitense al suo programma, contro le «élite», ma il risultato del rifiuto massiccio de/lle/gli elett/rici/ori di votare ancora per il Partito Democratico. Questa constatazione vale anche in materia ambientale. Poiché Obama, Clinton e Kerry non sono soltanto la ratifica dell’accordo di Parigi, sono anche lo scandalo del fracking, le perforazioni petrolifere al largo delle coste in acque profonde (ricordiamo la catastrofe della piattaforma BP Deepwater Horizon), i progetti di oleodotto per portare il bitume dell’Alberta alle raffinerie del Sud-Ovest degli Stati Uniti, ecc.

La politica ambientale capitalista, in particolare sul clima, fa il gioco dei populisti. La prova è portata a contrario dal trumpismo: misure anticapitaliste come la riduzione del tempo di lavoro senza perdita di salario, lo sviluppo del settore pubblico, la socializzazione dell’energia e del credito e la soppressione delle produzioni inutili o nocive sono indispensabili affinché la risposta al cambiamento climatico vada mano nella mano con la soddisfazione dei bisogni sociali. In mancanza di tali misure, l’insufficiente e ingiusta politica climatica capitalista può contribuire ad aprire la strada a demagoghi populisti pronti a tutto per impadronirsi del potere, salvo precipitare l’umanità in una tragedia che supera l’immaginazione della fantascienza più nera.

È un avvertimento. Forse l’ultimo. È soprattutto un invito a riprendere il cammino della lotta ecosocialista, in totale indipendenza dai poteri stabiliti.

(Traduzione di Gigi Viglino)
Note

1) Financial Times, 30 dec. 2015
2) Tanuro, «Le spectre de la géoingénierie hante l’accord de Paris sur le climat», Inprécor N 624, février-mars 2016.
3) New York Times, 10 nov. 2016
4) Financial Times, 21 Jan. 2016
5) Scientific American, 26 sept. 2016
6) NYT, 10 nov. 2016
7) UNEP, Emission Gap Report 2016
8) FT, 11 nov. 2016
9) FT, 13 nov. 2016
10) Le misure di Obama sono insufficienti anche solo per conseguire l’obiettivo USA di una riduzione delle emissioni del 26 al 28% nel 2025: secondo certe fonti, queste ridurrebbero le emissioni solo del 7 al 21% nel 2025 (16 al 32% tenendo conto delle misure annunciate ma non ancora finalizzate). http://www.theverge.com/2016/9/26/13035506/us-climate-change-policies-paris-accords-plan-fossil-fuels.

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