Pubblico impiego. Chi dice di avere rimesso in moto la contrattazione dimentica di precisare che la contrattazione sul potere di acquisto non esiste più, definitivamente archiviata dal testo unico sulla rappresentanza di due anni fa
di Federico Giusti
Si è riaperta una nuova fase della contrattazione collettiva nazionale di lavoro ?
Se guardiamo agli ultimi contratti e alle intese siglate negli ultimi mesi, la risposta è sicuramente affermativa, ma c’è da esserne fieri?
Sicuramente no, i contratti siglati prevedono aumenti dell’orario settimanale, aumenti risibili e incremento alla previdenza e sanità integrativa, rafforzamento degli enti bilaterali, un potere di acquisto e di contrattazione decisamente compressi.
La nuova fase incontra i favori dei datori di lavoro, pubblici e privati, ma non dei lavoratori.
La contrattazione nazionale si è dunque incamminata su un sentiero di non ritorno, una strada chiusa e senza sbocco.
Soffermiamoci sulla pubblica amministrazione. Contratti bloccati dalla fine del 2009, la intesa siglata non è un contratto nazionale, quello vero arriverà non prima della fine della primavera/inizio dell’estate del 2017, a quel punto gli anni di blocco contrattuale saranno 8 e il Governo se la caverà con 50 euro di aumenti netti.
Vi sembra quindi ammissibile tanto entusiasmo da parte dei sindacati firmatari ? A noi francamente no perchè chi asserisce di avere rimesso in moto la contrattazione nazionale dimentica di precisare che quella contrattazione destinata a restituire potere di acquisto e di contrattazione non esiste più, definitivamente archiviata con la firma del testo unico sulla rappresentanza nel privato, due anni fa.
La legge Brunetta non funziona, ora si tratta di ridefinire alcune forme di performance, sistemi di valutazione che saranno legati a una medesima impostazione culturale mirante a dividere la forza lavoro, a credere che dalla competizione interna la Pa possa trarre solo benefici.
Una intesa pre elettorale per occultare una situazione paradossale e il fatto che si rinvia non solo la firma del contratto, e l’arrivo della elemosina denominata aumento, ma anche la parziale riscrittura del D.Lgs. n. 165/2001 visto che rinnovo dei contratti e revisione della Brunetta andranno di pari passo.
Ma se leggete che la Riforma Brunetta è abolita, diffidate perchè vi stanno raccontando una bugia. Infatti, la parte prevalente del fondo per la contrattazione decentrata è collegata alla performance, “all’indennità di risultato e alla produttività”. Le amministrazioni pubbliche dovranno predisporre fasce di merito, rimetteranno in discussione il principio della Brunetta per la quale il 25% del personale non avrebbe percepito un euro di salario accessorio ma in sostanza l’impianto rimane vigente.
Le stesse materie da contrattare, sia sul piano nazionale che nella fase decentrata, sono state nel corso degli anni ridimensionate, anzi ormai sono ai minimi termini e il solo diritto, spesso violato, che resta è quello alla informazione.
Questa intesa subdola poi serve da apripista per l’approvazione, entro Febbraio, del decreto legislativo della riforma del pubblico impiego prima che scadano i 18 mesi dopo l’approvazione della legge n. 124/2014.
Per la definitiva approvazione del testo poi passeranno altre settimane, quindi a ragione veduta non prima della tarda primavera vedremo i frutti sia sul piano contrattuale che su quello inerente la riforma della Pubblica amministrazione. I risultati, dopo 8 anni di blocco, saranno solo negativi in termini economici e contrattuali ma questo la stragrande maggioranza della forza lavoro lo comprenderà quando sarà troppo tardi.
Per cultura sindacale e politica diffidiamo da sempre quando ci viene raccontata la storiella della partecipazione attiva del personale per rendere efficienti i modelli organizzativi, una storiella perchè le materie da contrattare sono quasi inesistenti e senza un effettivo potere decisionale non andremo lontano.
In questi anni la semplificazione della macchina organizzativa è stata un’arma ideologica per tagliare posti di lavoro, i sindacati vengono informati a cose fatte, per fortuna con la vittoria del no almeno il coinvolgimento delle autonomie locali resta in vigore ma sul piano sindacale non ci sono segnali di novità.
Chiudiamo sugli aumenti, 85 euro lordi e medi con numerose incognite. Questi soldi teoricamente non andranno a tutti\e ma solo ai “livelli retributivi che più hanno sofferto la crisi economica” Ci sono comparti come enti locali e sanità che nel corso degli ultimi 15 anni hanno perso potere di acquisto più di altri, basterebbe vedere la parte accessoria e quanto pesa sulla retribuzione complessiva per capire la beffa.
I sindacati si accontentano delle promesse ma tutto dipenderà dalla legge di bilancio del 2017 e di quella del 2018 , da quanti stanziamenti saranno erogati, intanto la la legge di stabilità del 2016 assicura solo il ridicolo aumento dello 0,4% del monte salari 2015, al netto sono meno di 10 euro mensili lordi.
Buio completo sulla quota degli incrementi destinati al miglioramento del trattamento economico fondamentale e del secondo livello di contrattazione.
Siamo certi che in futuro avremo indicazioni ben precise sulla contrattazione decentrata, lo faranno compatibilmente con gli obiettivi di finanza pubblica e saranno solo dolori per noi tutti\e. Le amministrazioni vogliono un sindacato con cui fare accordi ed evitare gli atti unilaterali per condividere eventuali responsabilità erariali davanti alla corte dei conti, allo stesso tempo sappiamo che le materie sulle quali il sindacato potrà incidere saranno ben poche non aumentando ma diminuendo il potere di contrattazione.
Nessuna rimozione del blocco, ora parziale, del turn over, nessun investimento per la stabilizzazione dei precari, ci si accontenta solo di ridurre le forme di lavoro flessibile utilizzabili nella Pa ma niente di piùm, solo vaghe promesse.
Questi pochi elementi sono sufficienti ad aprire una seria riflessione sul ruolo del sindacato e sui futuri assetti della Pa, facciamolo in fretta perchè di tempo ne abbiamo veramente poco.