Convulsioni nel Pd. Renzi forse molla, Orfini reggente, Bersani che dice “la scissione già c’è”, Pisapia ha un Campo progressista tutto da arare. Tensione a mille, contenuti zero
di Giulio AF Buratti
Nel «Partito di Renzi» la minoranza non resterà. Forse. La scissione sembra a un passo, all’indomani dalla direzione del Pd in cui Matteo Renzi ha proposto da subito l’avvio del congresso. Forse. Attacca Bersani, «la scissione è già avvenuta tra la nostra gente, dovremmo tentare di recuperarli e invece Renzi mette loro le dita negli occhi». Bersani e i suoi invocano la discesa in campo di ‘mediatori’, da Dario Franceschini e Andrea Orlando, ai ‘padri’ del Pd Romano Prodi e Walter Veltroni. Obiettivo, indurre il segretario a un ripensamento e tenere il congresso in autunno. Nella notte, i big della maggioranza dem si sono incontrati nella sede del Nazareno per esaminare tutte le strade di una possibile apertura alla sinistra e scongiurare così la scissione. Renzi, Franceschini, Luca Lotti e Maria Elena Boschi hanno provato a mandare un segnale come richiesto ancora ieri da Roberto Speranza.
Ma Renzi non sembra intenzionato a cedere più di tanto anche se forse rimetterà il mandato per tentare di riconquistarlo al più presto. Reggente potrebbe essere Orfini, il presidente del partito con un palmares non certo entusiasmante. E’, tanto per dire, l’artefice del democrack a Roma, dove commissaria il partito al quale ha imposto l’hara kiri di Marino. Ad ogni buon conto, per i renziani la minoranza alza il tiro cercando un pretesto per rompere. «La scissione non c’è, non si può giocare sulle parole. Dobbiamo restare uniti – è l’appello di Graziano Delrio – perché divisi siamo nulla». Con le amministrative a giugno, osservano i renziani, il congresso non si può che tenere a fine aprile o al massimo a inizio maggio: non si può tenere la campagna congressuale mentre è in corso la campagna elettorale. Mentre di fare un passo indietro e convocare il congresso a ottobre, come gli chiede Bersani, Renzi non ne vuol sapere. Impossibile trovare ciccia nei resoconti di agenzie. Forse perché non ce n’è più di tanta. Maggioranza e sinistra hanno votato insieme tutti gli sconvolgimenti del welfare e della Costituzione inseguiti da Renzi e, tranne l’appello vago di Caldarola a “ridiventare socialisti” nessun elettore medio saprebbe dire una sola ragione per spiegare le convulsioni del partito di maggioranza relativa. Il nodo dello scontro pare essere quello della data delle elezioni: Renzi scalpita, così pure Orfini, mentre i bersaniani vorrebbero far durare il governo fino a fine legislatura.
A questo punto, il percorso tracciato è il congresso subito. Mentre sulle elezioni, sembra chiusa la finestra di giugno ma i renziani non archiviano l’idea di un voto a settembre o ottobre. Ieri in direzione è finita 107 a 12, ricordano i dirigenti Dem. A favore del congresso subito e contro la scissione è partita anche una raccolta di firme tra sindaci e presidenti di Regione ex Ds ora in linea con Renzi.
Domenica l’assemblea, dopo che il segretario avrà annunciato le sue dimissioni, avvierà il percorso, convocando una nuova direzione per eleggere la commissione per il congresso: in quella sede si decideranno le date. In queste ore Franceschini sta cercando di mediare perché le primarie per la scelta del segretario, che chiudono il congresso, si facciano a metà a maggio, con le stesse regole del 2013: il tentativo è evitare, afferma chi è vicino al ministro, che la sinistra Dem possa attaccarsi a formalità come alibi per la scissione. Anche Orlando, che avrebbe con sé 28 deputati e 17 senatori, sta cercando di mediare e perciò in serata incontra Gianni Cuperlo. La sua proposta resta quella di tenere una conferenza programmatica prima del congresso. La priorità che indica è mettere «al bando» la scissione, perché «la nostra gente non capirebbe». Orlando, osservano dalla minoranza, potrebbe essere il candidato anti-Renzi in grado di unire la sinistra Dem. Lui per ora non si sbilancia: «Non è all’ordine del giorno». La minoranza, intanto, alza i toni, lancia allarme dopo allarme. Davide Zoggia si considera fuori dal partito «al 70%». E Bersani, che chiede di blindare il governo fino a fine legislatura e non esclude di mancare domenica in assemblea, dice di non fidarsi più di Renzi: chiede una mediazione dei dirigenti della maggioranza Pd («Non siamo un gregge») e tiene i contatti con gli altri esponenti di minoranza, da Francesco Boccia che è vicino a Emiliano a Cuperlo. La scissione, dice quest’ultimo, sarebbe una «sciagura» ma è quanto mai vicina: «Ieri in direzione era evidente la disistima reciproca. Rischiamo di distruggere un progetto cui la sinistra ha lavorato per venti anni». Questo fine settimana se non cambierà niente la scissione tanto evocata, avvertono i bersaniani, potrebbe consumarsi.
D’Alema non pervenuto ma Emiliano e il governatore toscano Rossi stanno affilando le armi per entrare nella contesa per la successione.
In una situazione del genere, quello lanciato da Pisapia appare «un campo aperto che ora è tutto da arare» e che come successo con il Modello Milano e in tanti altri comuni governati dal centrosinistra «vuole partire dal basso, senza però rottamare nessuno». Verrà pubblicato oggi il programma valoriale di Campo progressista, il nuovo progetto di Giuliano Pisapia. Poi da lì si inizierà a costruire il programma del nuovo soggetto politico. Sarà un ponte per gli “scissionisti”? Certo, la diaspora dem non è mai sembrata così vicina come ora. Per trovare un precedente si deve tornare alla metà del decennio scorso quando pareva probabilissimo che Cofferati s’inventasse il partito del Lavoro o giù di lì. Qualcuno con le valige già in mano ci restò di stucco.
Insomma, il cocktail del campismo progessista prevede per ora un ex sindaco, che ha strappato Milano al centrodestra dopo vent’anni, un senatore con un passato da ulivista di ferro e legami forti con l’associazionismo, un vicepresidente di Regione che fa parte del coordinamento di Sel e una presidente della Camera. Mettili in una sala a fare un dibattito sulla buona politica moderato da Gad Lerner e quello che esce sono prove di un nuovo Ulivo, o meglio di campo progressista. E’ successo ieri sera a Milano, in parallelo con l’assise Pd e in anticipo sul conngresso di Sinistra Italiana, dove un migliaio di persone (fra gli altri il deputato Bruno Tabacci e il fotografo Oliviero Toscani) si sono ritrovate per ascoltare la proposta di Giuliano Pisapia aperta a civismo e amministrazioni che guarda alla sinistra e al centrosinistra per non vedere «mai più una parte governare con la destra». L’ex sindaco non si sente un nuovo Romano Prodi, tanto che a una domanda sul leader che creò l’Ulivo, ha risposto di essere Pisapia, però è convinto che serva una svolta, «discontinuità». «Volevo andare in pensione – ha raccontato lui che ha rifiutato di candidarsi per un secondo mandato a Milano – ma quello che mi è scattato è stato vedere quanto bisogno c’è di buona politica», con un programma che nasce dal basso perché bisogna ascoltare. Perché «non puoi sbeffeggiare i sindacati» e se fai scelte sbagliate, come togliere l’Imu anche a chi ha dieci appartamenti, devi «dire ho sbagliato e fare autocritica». Difficile non pensare all’ex premier Matteo Renzi anche se Pisapia non lo ha citato e ha assicurato di non voler rottamare nessuno. Certo, ha caricato la dose Laura Boldrini, «la sinistra ha perso la bussola e se ci sono tanti delusi è perché qualcuno li ha delusi. La sinistra ha deluso facendo la destra». «C’è bisogno di cambiare radicalmente» ha aggiunto il vicepresidente del Lazio Massimiliano Smerigllio, nel giro di due decenni passato dall’autonomia operaia al centrosinistra solcando da sinistra a destra il Prc e poi Sel. Dove arriverà fra un paio di lustri? Boldrini ha confermato che sarà all’appuntamento fissato per l’11 marzo a Roma, seconda tappa di questo percorso che il senatore Franco Monaco si augura porti alla nascita del campo progressista che sappia «rispondere a una domanda estesa di sinistra di governo, civica, plurale con un marcato profilo di novità».