Roma. La “fine della città” e dell’urbanistica dietro lo scontro tra Raggi e Berdini. I frutti avvelenati del “pianificar facendo” e gli equivoci sui diritti edificatori dei palazzinari
di Mario Lusi*
L’insieme della vicenda legata alla costruzione dello stadio e alle dimissioni di Paolo Berdini da assessore all’urbanistica del Comune di Roma, evidenzia una aspetto di ben più ampia portata che giustamente Tommaso Montanari ha posto in risalto nel suo articolo dell’altro giorno su La Repubblica: la fine dell’urbanistica. Questione strettamente connessa a quella ‘fine della città’ di cui aveva parlato Leonardo Benevolo nel libro conversazione con Francesco Erbani, per la perdita dei suoi elementi costitutivi che l’hanno sempre contraddistinta, ossia il suo essere circoscritta. La città che perde la sua fisionomia e invade il territorio circostante, che non acquista carattere di urbanità ma non è neanche più campagna. Fenomeno di rilevanza planetaria, giova ricordare, che interessa sia i paesi industrializzati che quelli più poveri, non confinabile ad una o ad alcune città italiane.
Nello specifico romano, lo sgretolamento di politiche urbanistiche degne di questo nome, sono state il frutto di un governo del territorio negli ultimi quindici anni all’insegna del pianificar facendo. Di una prassi che ha tentato di governare la città attraverso un liberismo temperato, che ha smarrito ogni rigore ed efficacia riformista, divenendo nel tempo sempre più simile a quella milanese: la prassi che ha cancellato progressivamente e nei fatti il piano regolatore sostituendolo con la contrattazione con la proprietà fondiaria. Senza soffermarsi su numeri e dati che Paolo Berdini ha fornito nel tempo con crescente e drammatica puntualità, i documenti ufficiali del Comune di Roma, ci dicono ad oggi che il pianificar facendo ha deciso e realizzato milioni di metri cubi equivalenti a migliaia di nuove stanze, assolutamente sproporzionati rispetto al reale fabbisogno abitativo. Si sta proseguendo nel costruire un numero spropositato di nuove abitazioni, mentre gli abitanti di Roma continuano a diminuire e mentre decine di migliaia di famiglie, di giovani, di studenti, di immigrati sono senza casa. La residenza pubblica è stata criminosamente cancellata e siamo agli ultimi posti in Europa per quanto riguarda gli investimenti in edilizia sociale. Gran parte di queste decisioni sono state assunte spesso in deroga agli strumenti urbanistici e senza il coinvolgimento della città. In barba anche al regolamento sulla partecipazione, parte integrante del nuovo Piano regolatore di Roma. Aspetto, quest’ultimo, da mettere in relazione con le ultime dichiarazioni rese dalla sindaca Virginia Raggi, sul carattere ‘riservato’ della trattativa in corso con i privati per la realizzazione del nuovo stadio.
Non volendo negare la sede naturale per l’assunzione di una decisione amministrativa e dei suoi inevitabili passaggi procedimentali, ciò che riecheggia in questo stile è il carattere escludente rispetto a tutte le voci delle associazioni che rappresentano interessi diffusi e dei cittadini direttamente coinvolti. Atteggiamento escludente e vetusto perché ricalca quelle vecchie logiche che si dichiarava di voler ribaltare durante la campagna elettorale. Ma insieme alla partecipazione cancellata, in una città che aveva conosciuto negli anni ’70 e ’80 la stagione esaltante dei comitati di quartiere e delle grandi lotte sociali e ambientali, delle varianti urbanistiche discusse zona per zona, viene tracimato veramente tutto nell’epoca della memoria corta che vuole perfino occultare il presente insieme ai suoi meccanismi più perversi. Tra questi, al fine di inquadrare nella giusta ottica la questione del nuovo stadio e delle cubature annesse, c’è l’errore di fondo racchiuso in due espressioni equivoche, “compensazione urbanistica” e “diritti edificatori”. Si è letto più volte in questi giorni, che anche qualora non si realizzasse il nuovo stadio, il costruttore avrebbe diritto comunque ad edificare il resto per effetto della compensazione edilizia attraverso la quale ha ceduto proprie aree destinate a verde e servizi pubblici. Ma gli autorevoli pareri dell’urbanista Edoardo Salzano e del giurista Vincenzo Cerulli Irelli, avevano già dimostrato l’assoluta infondatezza giuridica della tesi secondo la quale aver ottenuto una certa edificabilità da un precedente piano urbanistico comporta inevitabilmente che quelle previsioni siano una sorta di diritto eterno.
E’ soltanto il piano urbanistico che attribuisce e cancella o riduce le previsioni edificatorie: l’unica condizione da rispettare è che le cancellazioni siano adeguatamente motivate. Però di questo i giornali non parlano che è invece uno dei temi centrali sui quali si snoda l’intera vicenda e, lo ripeto, non riguarda unicamente il nuovo stadio – che secondo Paolo Berdini si poteva realizzare a determinate condizioni con il contenimento delle cubature annesse. Ma soprattutto, non parlano dei più diffusi elementi costitutivi del paesaggio romano che sono le gru dei nuovi cantieri. Solo il diavolo sa quante sono. Non parlano di una città che è sempre più estesa, più faticosa da vivere, congestionata, avvelenata dal traffico. Chi va in treno a Fiumicino, vede che restano solo pochissimi brandelli di campagna abbandonata, il resto sono asfalto, cemento e rifiuti. Sono tornate anche le baracche e un abusivismo miserabile e indisturbato. L’Agro Romano è ormai a rischio di estinzione. Non parlano di tutto ciò, perché preferiscono dare risalto a 10 secondi di conversazione in più che avrebbero inchiodato Paolo Berdini alle sue responsabilità. Poi di quelle che probabilmente nessuno più si assumerà, le responsabilità di invertire davvero la rotta fin qui seguita, temo che difficilmente si parlerà in futuro.
*giurista ambientale e blogger
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