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Pd: tutt’altro che socialista, ma la rivoluzione c’è stata

Le minoranze del Pd rompono gli indugi e lasciano il partito di Renzi. Sinistra Italiana elegge il suo primo segretario: è Nicola Fratoianni. La guerra di posizione è appena iniziata

di Checchino Antonini

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Nicola Fratoianni è il primo segretario di Sinistra Italiana, eletto con 503 voti favorevoli, 32 contrari e 28 astenuti dal congresso fondativo che si è appena chiuso al PalaCongressi di Rimini. Risultato largamente previsto già all’inizio del percorso che ha portato Sel a “superarsi” per ricostituire la sinistra radicale accogliendo pezzi di fuoriusciti dal Pd e dal Prc, l’area di giovani dell’associazione Act e quei settori di ex disobbedienti già in orbita di Sel. Ma perdendo pezzi consistenti lungo la strada, dai “miglioristi” affascinati da Renzi fino ai Ciccioferrara, Smeriglio, Oggionni, Furfaro, in fila per entrare nel campo di Pisapia e in quello che verrà fuori dalla deflagrazione prevista al Nazareno.

Con un orecchio alla radiolina, come ai tempi di Tutto il calcio minuto per minuto, l’ultima giornata di congresso è stata anche l’occasione per tirare fuori i sassolini dalle scarpe segno che qualche linea di tensione esiste. C’è chi avverte che «le pratiche sono più importanti dello storytelling» (Giulio Marcon di Sbilanciamoci), e parecchi che provano a prendere le distanze da quello che avviene al Nazareno: «Che ci frega di D’Alema, voglio fare Podemos, non la guerra di posizione per conto di Emiliano», dice con foga la pugliese Paola Natalicchio più che scettica sull’alleanza con il governatore della sua regione che fa alleanze locali peggio di Renzi con Verdini, chiude ospedali e non ripubblicizza l’acqua, dettaglio che Natalicchio non dice perché tirerebbe dentro anche le responsabilità di Vendola in una mancata scelta che, invece, De Magistris ha compiuto e si rivendica nell’intervento successivo. Saluta il congresso tra gli applausi e i fischi e pare il meno interessato di tutti a «transumanze e migrazioni di deputati e senatori». « «Io lavoro a una sinistra di popolo, a un’alternativa democratica e sociale che non può essere guidata da D’Alema».

Controcorrente rispetto a Natalicchio, Alfredo D’Attorre, comunque applaudito dalla sala, che è persuaso dell’errore dell’euro ma che vuole discuterne con Bersani e D’Alema piuttosto che con il minoritario Ferrero. La fine del Pd è una necessità storica, dice ancora, e bisogna interloquire, «stare nel gorgo». Claudio Grassi – un tempo super-comunista antagonista del movimentista Bertinotti – ringrazia Vendola e bacchetta Rifondazione che non s’è dissolta nel nuovo che avanza. Poi ricominciano gli interventi critici con la prospettiva di essere condizionati ancora da quel che smuove il Pd. Ci sono gli studenti di Link che non si fidano di chi ha partorito jobs act e buona scuola ma pure di chi li guarda dagli spalti anziché scendere in piazza. Ovvio che i meno entusiasti di rimettersi a trafficare con il Pd siano Civati e Fassina («Non siamo l’organizzazione giovanile di D’Alema e Bersani, abbiamo già dato»), con toni diversi entrambi hanno spiegato che la sola idea gli fa spuntare e non stanno bene a sentir parlare ancora di centrosinistra e Ulivo da parte di chi ha affossato quelle esperienze. Non va dimenticato, però, che Sinistra Italiana è il punto di incontro per settori in fuga dal Pd, verso sinistra, e altri in marcia verso una dimensione di governo. Per cui Vendola ha buon gioco ad avvertire Pisapia, e il PalaCongressi, che la tragedia sarebbe se il Pd non si scindesse, più precisamente se la sinistra non scindesse le proprie responsabilità da quelle del liberismo. «Pronti al dialogo, ma non con il cappello in mano», dice nel suo ultimo discorso da leader del partito.

Insomma, è stato un «congresso nel mezzo del terremoto», segnala Luciana Castellina svelando la coincidenza con il luogo in cui so consumò l’ultimo atto del Pci prima di divenire Pds: 800mila militanti tornati a casa e mai più usciti. Gettonatissimo Papa Francesco nelle citazioni dei congressisti intervenuti, come pure Iglesias, leader di Podemos. «Bisogna interloquire», dice Fratoianni nel suo primo intervento da segretario pensando ai rivoltosi antirenziani ma sa benissimo anche lui che la prima rogna sarà alla prima fiducia che pretenderà il governo magari sul decreto Minniti. «Se la scissione dovesse portare a nuove articolazioni nei gruppi parlamentari vorrei vedere cosa faranno nel momento in cui si dovesse la fiducia al governo Gentiloni».

Intanto a Roma, il “terremoto” si compie. Alla fine di una giornata convulsa, con un gioco al cerino tra le due anime ormai sempre più lontane, si consuma la scissione. Il congresso si farà ma i tre ormai ex sfidanti di Renzi Roberto Speranza, Michele Emiliano e Enrico Rossi non saranno della partita. «Abbiamo atteso invano delle risposte, è ormai chiaro che è Renzi ad aver scelto la strada della scissione», strappa la minoranza. Ma il leader guarda già avanti perchè «peggio della scissione ci sono solo i ricatti e il Pd non può stare fermo» negli scontri interni. Che Renzi non abbia alcuna intenzione di rinviare la resa dei conti interna si capisce appena, nella sala dell’hotel Parco dei Principi, davanti ai 637 delegati, Matteo Orfini annuncia che il segretario ha presentato le dimissioni. Un atto formale che prelude al discorso, senza appigli per la minoranza, che farà l’ex premier, dirà di avere intenzione di cedere «il copyright della sinistra» ad altri men che meno alla minoranza che ieri, al teatro Vittoria, cantava Bandiera Rossa. «Sinistra non è come chi dice ‘capotavola è dove siedo io’», è la frecciata a Massimo D’Alema, grande assente dell’assemblea e ormai già lontano dal Pd. E proprio per dimostrare che la sinistra, comunque andrà, resterà, secondo i renziani, nel Pd, sfilano sul palco i fedelissimi che vengono dalla storia del Pci: Teresa Bellanova, Piero Fassino, Maurizio Martina, Claudio De Vincenti. Da quella storia viene anche Walter Veltroni che parla da padre nobile del Pd e torna in assemblea solo per la drammaticità del momento: «Ai compagni dico che il Pd ha bisogno di voi», dice il primo segretario dem che ricorda i danni di una sinistra che divisa «ha fatto male a sè stessa e al paese» e scongiura un ritorno a Ds-Margherita, «un ritorno al passato e non il futuro». Ma la minoranza non ascolta la mozione degli affetti. Manda sul palco Guglielmo Epifani in rappresentanza dei tre candidati a rilanciare la palla nel campo di Renzi: «Noi ci aspettavamo una proposta, il segretario ha tirato dritto, ora faremo delle scelte». Pier Luigi Bersani, provato nel volto, non parla dal palco ma lancia un ultimo avvertimento dalla tv. «Il segretario ha alzato un muro, vuole fare un congresso cotto e mangiato senza discussione ma aspettiamo la replica», dice all’ora di pranzo. Ma la replica non arriva, chiarendo le intenzioni del segretario. I bersaniani sono già con un piede fuori, come lasciano capire Nico Stumpo e Davide Zoggia. Anche Enrico Rossi ormai vede per la minoranza «un’altra strada». Ma Michele Emiliano prova fino all’ultimo ad evitare la rottura, ammettendo che «qui si soffre tantissimo». E salendo sul palco spera ancora in un gesto del leader. Alla fine, davanti all’ennesimo niet arrivato dai fedelissimi del leader, la minoranza si ricompatta e addossa al segretario dem la responsabilità della rottura: «È ormai chiaro che è Renzi ad aver scelto la strada della scissione assumendosi così una responsabilità gravissima». Giù il sipario.

 

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