Quello che sta succedendo nel Pd e le sue ripercussioni sulla sinistra radicale
Di fronte alla crisi dirompente che attraversa il PD e alla sua possibile scissione si moltiplicano sui media borghesi le analisi delle cause e le frasi ad effetto (“un partito nato male e troppo tardi: un amalgama mal riuscita”; “un partito mai nato”; “il suicidio perfetto”, ecc.), ma nessuno di essi vuole andare alle radici profonde di questa crisi che chiama in causa entrambi le parti, sia i renziani che Bersani e soci. Questo partito è in crisi, certo per il duro scontro di potere interno con il tentativo della minoranza di non scomparire in quanto gruppo dirigente politico ed istituzionale, ma è in crisi soprattutto per aver gestito direttamente le politiche liberiste dell’austerità. La causa è la stessa che ha portato in Francia il partito socialista alla frammentazione e al precipizio.
Le origini profonde della crisi PD
Il PD, nato dieci anni fa dalla fusione tra una parte della vecchia DC e il PCI, diventato PDS con l’abbandono del vecchio nome e la scissione di Rifondazione comunista, aveva come obiettivo di fondo la costruzione di uno strumento politico che sapesse rappresentare e gestire al meglio le scelte politiche della classe dominante. Le origini popolari dei due tronconi che lo andavano costituendo avrebbero dovuto garantire la sua egemonia sulla società in alternanza alle forze della destra. Il risultato è stato contradditorio: se da una parte non sempre le elezioni l’hanno premiato confermando questa vocazione maggioritaria, dall’altra è anche vero che il padronato lo ha sempre considerato lo strumento politico essenziale di cui aveva bisogno per la gestione dei suoi interessi. E’ così dopo la caduta di Berlusconi nel 2011, chiesta a gran voce dalla Confindustria di fronte alla crisi economica e finanziaria, il PD è stato il partito fondamentale di sostegno e gestione delle politiche del governo Monti prima, poi di Letta, poi di Renzi che si è dato il compito di portare fino in fondo l’assalto liberista alla classe lavoratrice e infine, negli ultimi due mesi, del governo fotocopia di Gentiloni. Sono state così sviluppate appieno le politiche antipopolari dell’austerità: la controriforma pensionistica, la distruzione dello Statuto dei lavoratori, la precarietà generalizzata, la controriforma della scuola oggi approfondita con i decreti legislativi di Gentiloni, la macelleria sociale con i massicci tagli alla spesa pubblica, la presenza militare in giro per il mondo, le politiche contro i migranti. E’ l’intera “ditta”, cioè tutto il partito, tutti i deputati e i senatori del PD, a qualsiasi corrente interna appartenessero, che hanno approvato e garantito col loro voto leggi e provvedimenti infami che hanno determinato il profondo deterioramento delle condizioni di vita e di lavoro delle classi lavoratrici, e quindi il complessivo malessere sociale che attraversa tutto il paese. Renzi ha solo introdotto un’ulteriore accelerazione personale ed autoritaria nella gestione del PD, con l’emarginazione dei vecchi dirigenti, ma non è stato un intruso, rappresenta la continuazione diretta delle loro politiche.
Solo che col passare degli anni questo partito e i governi che sosteneva e/o gestiva in prima persona sono apparsi ad ampi settori della popolazione sempre più per quello che erano, dei nemici, responsabili del deterioramento della loro condizione materiale.
Il tentativo di Renzi di imporre una prova di forza risolutiva sul piano politico ed istituzionale attraverso il referendum costituzionale, per consolidare la controrivoluzione liberista e il suo potere, è fallito; ha subito una dura sconfitta per la ribellione di massa espressa nel voto del 4 dicembre, che ha coinvolto in primo luogo i giovani e i settori più deboli e impoveriti del paese. La crisi di direzione politica ed interna del partito era inevitabile, anche se la mancanza di una forza di alternativa del movimento operaio e delle sinistre, ha permesso alla borghesia di rimettere in piedi un governo in totale continuità con quelli precedenti.
Le scelte di Bersani e soci
Per gli oppositori interni al PD, di fronte a un segretario che, se pur indebolito dalla sconfitta del 4 dicembre, li sta mettendo al muro per farli scomparire dalla scena politica, era giocoforza uscire allo scoperto, arrivando anche eventualmente alla misura estrema della scissione, su cui da più tempo un personaggio come D’Alema, ha disposto alcune pedine.
Di qui all’improvviso la loro scoperta che il partito si è separato dalla sua base popolare storica, che il “Jobs act “e la “Buona scuola” sono delle schifezze, che il colore rosso delle bandiere è bello e così anche il cantare Bandiera Rossa.
Bersani e soci sperano di avere qualche carta in più da giocare perché il referendum ha messo in luce l’attivazione di aree sociali tradizionali di riferimento attraverso l’ANPI e l’ARCI (quali ha dedicato da tempo una particolare attenzione d’Alema). Sperano che queste possano essere in parte un elemento di sostegno al loro progetto politico, in attesa anche di capire quanto potrà muoversi nella CGIL stessa.
Naturalmente non possiamo che rallegrarci della crisi del PD e di Renzi e del suo pericoloso progetto autoritario e antidemocratico, ma è abbastanza grottesco che coloro che hanno votato senza particolari patemi d’animo le leggi liberiste, oggi, per pure ragioni tattiche, dichiarino verbalmente di discostarsene. In realtà, come una tavola sinottica de La Stampa ha messo in luce, tra Renzi e la minoranza le differenze sui contenuti politici e di fondo sono del tutto irrisori per non parlare dei valori ideali di cui non si vede traccia da nessuna parte.
Che poi l’antagonista di Renzi, sia d’Alema, l’uomo del bombardamento di Belgrado, delle più grandi privatizzazioni mai fatte, del difensore (dieci anni fa col governo Prodi) degli impegni militari (tra cui l’Afghanistan) in giro per il mondo per difendere gli “interessi vitali” del paese, dei tentativi di inciuci sul terreno istituzionale con Berlusconi, è non meno ridicolo.
Quale possibilità potrà avere l’eventuale nuova formazione politica, se veramente nascerà nelle prossime settimane? I primi sondaggi e valutazione giornalistiche indicano percentuali elettorali intorno al 5%-7%, (pochi azzardano il 10%) per di più non come forza completamente autonoma, ma in un quadro di alleanza con lo stesso PD.
Per parte loro i dirigenti della minoranza, mentre criticano la “buona scuola”hanno già espresso il loro pieno sostegno al governo Gentiloni che, con i recenti decreti legislativi applicativi ne peggiora ancora in senso reazionario i contenuti. Costoro sono infatti in una contraddizione irrisolvibile: se facessero cadere col loro voto il governo non farebbero altro che fare il gioco di Renzi che vuole arrivare rapidamente alle elezioni anticipate nella speranza di una rivincita.
Sulla tenuta del governo la borghesia ha naturalmente delle preoccupazioni ben riassunte da Giannini su “La Repubblica”: “ Come è già successo a Prodi nel 2008, sul governo Gentiloni . precipiteranno tutti i tormenti e i risentimenti di questa sinistra pulviscolare e neoproporzionale. Un governo che deve durare fino al 2018 e, che senza più l’ombrello di Draghi deve gestire una legge di stabilità che incorpora già 20 miliardi di clausole di salvaguardia e una crisi della banche sempre più acuta. Con che spalle le sostiene questo premier “a responsabilità limitata”, è difficile immaginarlo”.
Per quanto riguarda direttamente la Confindustria l’editoriale del Sole 24 ore (21 febbraio) dopo aver bacchettato renziani ed oppositori per non aver avanzato con sufficiente forza i contenuti economici che interessano i padroni, scrive: “ ….l’interesse del paese “ (sic..) ” – lo ribadiamo subito – è proseguire con decisione e senza indugi in un percorso di riforme avviato da Matteo Renzi, pur tra errori e contraddizioni, ma anche con qualche buon risultato.” Per concludere poi con un appello ieratico “...di fronte al messaggio populista – incapace di governare i grandi problemi così come amministrare le grandi città – la risposta può essere solo più governo e presto, senza perdere altro tempo”.
Contrastare l’attrazione fatale
Quello che ci interessa e ci preoccupa di più della crisi del PD e dei disegni della sua minoranza sono gli effetti politici che si potranno produrre e già si producono nelle forze che si collocano alla sua sinistra e i richiami della foresta che si determinano appena si muove una foglia nel mondo del vecchio PCI.
Un effetto ben visibile subito si è determinato: Sinistra Italiana ancor prima di nascere formalmente nel congresso di qualche giorno fa, ha visto una sua parte (molto consistente sul piano parlamentare) abbandonarla per correre ad inserirsi nella dinamica politica organizzativa dell’ipotetico nuovo partito di D’Alema e Bersani: non stupisce, ma impressiona comunque la qualità politica e morale di questi esponenti della “sinistra”.
E’ già dentro a questo processo l’ex sindaco di Milano e il Manifesto ci si infila di corsa prodigando i suoi preziosi consigli e entusiasmandosi della “svolta a sinistra” della socialdemocrazia tedesca in vista delle prossime elezioni…..
La direzione politica della neonata SI non poteva che riaffermare, a conclusione del congresso, le ragioni del suo essere indipendente e della sua autonomia, esprimendo però contemporaneamente la disponibilità a rapportarsi col nuovo partito degli scissionisti se nascerà. Vedremo rapidamente cosa significa questa disponibilità, ancor più se i tempi elettorali fossero ravvicinati (leggi anche il pezzo di Checchino Antonini sul congresso di Si).
Rifondazione va a congresso con una forte articolazione di dibattito interno in cui viene riaffermata in ogni caso la sua autonomia e alternatività rispetto al PD nel suo insieme. Anche in questo caso le parole scritte sono importanti, ma ancor più importanti saranno i fatti e le scelte concrete che saranno fatte nei passaggi sociali, politici ed elettorali della prossima fase. C’è stridente contraddizione, quando si fa autocritica sulle scelte di Rifondazione di dieci anni fa col governo Prodi (meglio tardi che mai), ma contemporaneamente si sostengono le scelte di Tsipras e il suo secondo governo che applica il terzo memorandum della Troika.
La crisi del renzismo e del Pd e la vittoria del referendum, devono servire, secondo noi, a rilanciare con più forza la costruzione di una reale sinistra di alternativa, cioè una forza che sappia coniugare la battaglia contro le politiche liberiste a un progetto forte anticapitalista che le contraddizioni dell’Unione Europea e del sistema economico dominante rendono tanto più necessario ed attuale.
Questo significa dunque la totale alternatività a tutte le correnti politiche espresse dal PD e nei suoi d’intorni, privilegiare l’azione sui contenuti rispetto ai contenitori, e soprattutto un comune impegno di tutti coloro che vogliono aiutare le classi lavoratrici a rialzare la testa, a riprendere la mobilitazione e la lotta per mutare in profondità i rapporti di forza, la costruzione delle resistenze, delle mobilitazioni e delle lotte, nei luoghi di lavoro, nelle fabbriche, nelle scuole,nelle aree metropolitane e nei quartieri popolari, contro i padroni e il governo, contrastando le politiche compromissorie degli apparati burocratici conservatori.
La crisi e le ricomposizioni che attraversano le forze politiche devono essere un incentivo per favorire la ricomposizione sociale dei soggetti di classe. Per altro questo è la via più sicura per ottenere anche sulla scena politica elettorale, che si produrrà entro un anno, una ripresa delle forze della sinistra vera.
Questo nuovo partito di pseudo-sinistra ha il compito di incanalare verso il malaticcio governo del PD. Il suo ruolo è di bloccare un movimento indipendente della classe lavoratrice da parte di coloro che si volgono verso una prospettiva socialista internazionale.
Gli “scissionisti” del PD e SI non hanno nessuna risposta progressista alla crisi. Stanno semplicemente cercando di prevenire il rapido smembramento del partito di governo.
La fondazione di Sinistra Italiana serve a coprire una serie di manovre per salvare il sistema e per impedire lo scoppio di una aperta lotta di classe.