Che cosa sta succedento in Romania. Le mobilitazioni di queste prime settimane di febbraio sono state le più imponenti in quasi tre decenni. Ma davvero è una nuova “primavera rumena”?
La sequenza dei fatti è la seguente:
- 3 31 gennaio 2017, mattina: si apre a Bucarest il processo contro Liviu Dragnea, patron del Partito socialdemocratico (PSD) e presidente della Camera dei deputati, accusato di aver intascato mazzette. Il tipo aveva già ricevuto una condanna di due anni, con la condizionale, per frode elettorale, ciò che gli aveva impedito di assumere cariche governative.
- 3 31 gennaio 2017, sera: il governo di “centrosinistra” (PSD e liberal-popolari dell’ALDE) emana alcuni decreti con i quali promulga un’ampia amnistia (circa 2000 interessati) e derubrica (Ordonanței 13) i reati di corruzione inferiori a 48.000 euro: se si ruba al di sotto di questa cifra, non si rischia più la galera. Guarda combinazione, Dragnea è accusato di aver intascato “solo” la metà di questa somma, 24.000 euro…
- N Notte fra il 1° e il 2 febbraio: centinaia di migliaia di romeni mangiano la foglia e scendono in piazza a Bucarest e in altre città per protestare contro i decreti.
- 3 3 febbraio: il governo si arrocca. Il giovane primo ministro, nuovo di zecca (è stato nominato in gennaio), Sorin Grindeanu, dice che, dato che il governo ha vinto le elezioni del dicembre scorso e dispone d’una maggioranza di ferro in Parlamento, di ritirare i decreti non se ne parla nemmeno. La protesta si gonfia, sino a coinvolgere circa 500.000 persone. Alcuni membri del governo si dimettono, arrivano i rimbrotti di non pochi esponenti dell’Unione europea.
- 5 5 febbraio: il governo si rende conto d’aver pestato una cacca, e i decreti sono ritirati. Ma le proteste continuano: l’obiettivo ora è lo scalpo del governo stesso, se ne chiedono le dimissioni, si vogliono nuove elezioni.
- L Le manifestazioni, anche se in scala ridotta, proseguono. La confusione governativa aumenta, sino a sfociare nel ridicolo: si multa un manifestante (l’unico che manifestava, tutto solo e con un cartello in mano) in una piccola città di provincia; la ministra del lavoro, Olguta Vasilescu, fa balenare la minaccia di misure contro i … genitori che portano i propri figli alle manifestazioni, esponendoli a chissà quali pericoli…
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Una «primavera romena»? Le mobilitazioni di queste prime settimane di febbraio sono state le più imponenti in quasi tre decenni. Per vederne una di maggiore entità occorre infatti risalire alle giornate del 1989 che hanno portato alla caduta del regime di Ceaușescu. Tutto bene, dunque? Siamo di fronte a una sorta di “primavera romena” in anticipo sul calendario? La risposta non è semplice, e per fondati motivi.
Di fronte alla corruzione non vi possono essere dubbi. Sia che la si giudichi una “degenerazione” del sistema capitalistico (ipotesi pietosa e pelosa dei liberaldemocratici), sia che la si ritenga ormai intrinseca al sistema (ipotesi più solida) è doveroso combatterla. Possibilmente andandone alle radici. Nonostante che alcuni commentatori si siano dilettati nel ripescare e rinverdire alcuni luoghi comuni dal sapore non tanto vagamente razzista, rispolverando eredità «balcaniche» e/o «ottomane», la corruzione non è una caratteristica esclusiva della Romania. Basti pensare a quel che succede in Francia con Fillon, a quel che succede in Spagna con il governo Rajoy, a quel che succede negli Stati Uniti con lo stravagante e inquietante governo circense allestito da Trump. Per non parlare dell’Italia, dove Mani Pulite è solo un episodio, particolarmente movimentato, di una storia e di una tradizione secolare: per non andare troppo lontano, basti ricordare che quella malalingua di Voltaire già nel Settecento ironizzava sulla «buona mancia» (in italiano nel testo originale), necessaria per ottenere un’udienza papale… [1] La corruzione caratterizza tutti i regimi esistenti, la differenza sta solo nel suo grado, nella sua diffusione, nella sua banalizzazione. Nei regimi parlamentari deboli è pervasiva e sotto gli occhi di tutti, in quelli più forti (o meno deboli) è più selettiva, meno visibile, a volte legalizzata (le lobbies statunitensi, per esempio).
O una rondine (che non fa primavera)? Ma torniamo al caso romeno. Dalla caduta di Ceaușescu a oggi in Romania si sono succeduti 20 governi. Fatta eccezione per i primi, grosso modo definibili – con qualche forzatura – di “unità nazionale”, i successivi sono stati caratterizzati da un alternarsi di coalizioni definibili – anche qui con una forzatura semplificatrice – di “centrosinistra” e di “centrodestra”. E nell’arco di questo tempo la corruzione è andata sviluppandosi, in perfetto spirito bipartisan. La prima significativa reazione popolare al suo diffondersi si ha nel 2015, quando, in seguito all’incendio scoppiato nel nightclub Colectiv(64 morti) vengono alla luce mancanze di controlli sui sistemi di sicurezza e di prevenzione, compensati con mazzette: ne derivano forti manifestazioni di protesta («La corruzione uccide»), che portano alla caduta del governo Ponta di centrosinistra e a un governo “tecnico”. Seguono nuove elezioni (dicembre 2016) che però riportano al governo il centrosinistra, sia pure con un’alta astensione (60 %, percentuale in linea comunque con le due precedenti consultazioni).
Qui emerge una prima anomalia, almeno apparentemente. La piazza rovescia un governo in nome della lotta alla corruzione, e nemmeno due anni dopo l’elettorato riconferma i partiti che facevano parte di quel governo. Sembra lecito cominciare a sospettare l’esistenza di due “blocchi” interni al popolo romeno, cosa peraltro non strana: anche in altri Paesi, Italia compresa, abbiamo visto in questi anni come la lotta alla corruzione mobiliti una parte della popolazione, mentre un’altra parte – pur non approvandola, almeno a parole – sembra essere più sensibile ad altri temi (stabilità, situazione economica, eccetera). Nel caso romeno, però, a questa anomalia se ne affianca un’altra.
Che le manifestazioni siano passate dall’iniziale richiesta del ritiro del decreto “salvaladri” a quella delle dimissioni del governo è abbastanza logico. E che abbiano poi compiuto un altro passo, rivendicando nuove elezioni, è altrettanto logico: il presidente della Repubblica, infatti, sulla base dei risultati elettorali del dicembre scorso, non potrebbe che dare nuovamente l’incarico a un esponente del partito di maggioranza, quello socialdemocratico. Ma così la iniziale generica protesta anticorruzione ha assunto una netta connotazione politica: antisocialdemocratica. E non solo antisocialdemocratica, bensì contraria tutto ciò che “puzza” di sinistra, contro tutto ciò che è riconducibile alla ciuma roșie (la “peste rossa”). E qui sta la seconda anomalia.
I due blocchi contrapposti Contrariamente a ciò che avviene in altri Paesi dell’Unione europea, infatti, lo scontro in corso in Romania non è fra antisistema e favorevoli al sistema, fra europeisti e antieuropeisti, fra “populisti” e partiti democratici vecchio stile. Da una parte, sulla difensiva, c’è un governo composto da socialdemocratici e popolari (accettati come tali dai rispettivi partiti europei) e, dall’altra quella parte della popolazione che è scesa in piazza, con l’appoggio però, per nulla larvato, dei partiti di centrodestra usciti in frantumi dalle elezioni, del presidente della Repubblica e dell’Agenzia anticorruzione (DNA), assurta a vera e propria star del momento. Ma entrambi i blocchi si dichiarano europeisti. Con la differenza che i socialdemocratici sono più “lenti” nell’accettare e nel mettere in pratica le “riforme” richieste a gran voce dall’Unione europea, che comporterebbero ulteriori tagli al già malridotto sistema di protezione sociale (il salario minimo lordo è di 320 euro), mentre il blocco di centrodestra vorrebbe che le risorse disponibili venissero spese “meglio”, non sprecate in “elemosine” elargite a una parte della popolazione improduttiva (pensionati) o impiegata in settori marginali (piccoli contadini, artigiani eccetera). Il tutto in un Paese dove le multinazionali hanno già arraffato quel poco di buono che c’era sul mercato.
Un commentatore romeno, Florin Poenaru, riassume così la situazione:
I socialdemocratici hanno innalzato il salario minimo e le pensioni, abbassato le tasse per i segmenti più poveri e aumentato (seppure di poco) le risorse per il sistema sociale. Per compensare queste misure hanno bisogno di modificare la tassazione, in modo particolare rottamando la flat tax e tassando i segmenti più ricchi e i redditi aziendali. Di fronte a questa prospettiva, non è per nulla sorprendente che i lavoratori delle grandi aziende, e soprattutto i loro capi, siano scesi in piazza a protestare. Nelle aziende di Bucarest sono stati dati giorni liberi [pagati] per poter partecipare di notte alle proteste contro il governo. McDonalds ha distribuito gratis il tè affinché i manifestanti si riscaldassero e reidratassero. Il dirigente locale della banca [tedesca] Raiffeisen, una banca accusata di aver truffato decine di migliaia di romeni mediante il trucco di introdurre clausole abusive nei contratti, s’è unito alla protesta con tutta la sua famiglia. […]. Nessuna meraviglia che in simile contesto le proteste siano rapidamente passate dallo specifico obiettivo riguardante il decreto [alla richiesta] di dimissioni del nuovo governo. [2]
Se le cose stanno così, è chiaro come la lotta alla corruzione abbia rappresentato la scintilla che ha incendiato la protesta, ma che gli obiettivi siano ora ben altri: sotto l’esile crosta della lotta alla corruzione si intravede infatti uno scontro di classe – classi medie e alte contro classi basse – dove le prime sono ben rappresentate politicamente, mentre le seconde non possono ripararsi, per ora, che dietro il poco credibile ombrello protettivo del governo socialdemocratico-popolare.
La corruzione è dunque un pretesto- Che la lotta alla corruzione sia diventato un pretesto lo si vede anche da qualche significativo particolare non preso in considerazione dalla grande stampa europea. Sembra in effetti che sotto accusa sia solo una fetta della corruzione – quella attribuita, o attribuibile, alla “sinistra” – mentre quella di “destra” viene passata sotto silenzio. Infatti, fa sempre notare Florin Poenaru,
le proteste [sono] state precedute dalle rivelazioni che il generale [Florian] Coldea, secondo in grado nella gerarchia del Servizio romeno d’informazione [SRI], un fermo pilastro della campagna anticorruzione, aveva dovuto dimettersi [12 gennaio 2017] in seguito all’accusa di collusione con un ex senatore accusato di corruzione. [3]
Ma questo scandalo non sembra essere stato notato dai manifestanti. Non si tratta di un particolare di secondaria importanza, perché il SRI, che dipende direttamente dal presidente della Repubblica, ha un ruolo importante nell’indirizzare in un senso o nell’altro la lotta alla corruzione. E il fatto che dipenda dal presidente della Repubblica non è tale da tranquillizzare: l’attuale presidente, Klaus Iohannis, è infatti stato onnipresente in questa crisi, e non si è certo mantenuto al di sopra delle parti. Appartenente alla esigua minoranza tedesca d’antica immigrazione (sono meno di 40.000 in tutto) è quanto meno un curioso personaggio: uomo di centrodestra, ammiratore d’Israele (il posto dove gli piacerebbe vivere, ha detto in occasione di un viaggio), beccato in un “fuori onda” mentre se la prendeva con un poveraccio definendolo «rom di merda» (e i rom sono la più consistente minoranza etnica del Paese), con una storia poco chiara di proprietà di immobili alle spalle (ma la storia è congelata, perché gode dell’immunità), fin da prima che iniziassero le proteste ha messo i bastoni fra le ruote al governo. Questi infatti aveva inizialmente proposto come premier Sevil Shadeh, una donna, per di più d’origini tartare e musulmana. Proposta bocciata da Iohannis, senza fornire motivazioni ufficiali. Ufficiosamente, avrebbe dichiarato che trattavasi di una «marionetta» di Liviu Dragnea. Ha poi dovuto accettare, a malincuore, la seconda proposta, quel Sorin Grindeanu che non ha esitato un attimo a dichiarare di ritenersi «agli ordini» di Dragnea. In sostanza, sì a una «marionetta» confessa, no a una donna tartara e musulmana. Data l’avversione dichiarata di Iohannis ai matrimoni gay e la sua ammirazione per Israele, non sembra azzardato “sospettarlo” di omofobia, antifemminismo e antislamismo. [4]
Altro particolare di non secondaria importanza: l’azione sempre più marcatamente politica di Laura Codruța Kövesi e della sua DNA, l’Agenzia anticorruzione. Che ha svolto un gran bel lavoro, mandando in galera un cospicuo numero di corrotti ma, a quanto pare, impiegando un criterio un tantino selettivo: ha gettato le reti fra le file socialdemocratiche, facendovi una pesca abbondante, ma prestando scarsissima attenzione ai “pesci” di centrodestra. Senza contare che il suo ruolo nell’affaire Coldea sopra ricordato resta tutto da chiarire. In Romania, come del resto in altri Paesi, il mito del magistrato “al di sopra delle parti” è duro da morire e si rinverdisce nei momenti di crisi del sistema, quando i pezzi dello stesso tendono ad autonomizzarsi. Ma questa loro autonomia è sempre relativa e quando nel sistema si aprono fratture lungo la faglia dello scontro di classe, questi organismi giuridici finiscono con lo schierarsi, da una parte o dall’altra. E di solito lo fanno dalla parte di “quelli di sopra”.
Il vero obiettivo. Il movimento anticorruzione, che si definisce liberaldemocratico ed europeista convinto, sta secernendo veleni ai quali dovremmo prestare maggiore attenzione. Dall’identificazione degli elettori socialdemocratici come responsabili dei problemi sociali ed economici del Paese, alcuni settori di questo movimento sono passati alle soluzioni. Per esempio,
proponendo alcune delle forme più grottesche di democrazia censitaria (l’esclusione [dal diritto di voto] di quelli sprovvisti di istruzione, di coloro che non hanno un certo reddito, di alcuni gruppi etnici oppure un’esclusione sulla base dell’età). [5]
Sembrerebbe dunque che nelle viscere di questo movimento di spiritosi e creativi millenials (come li ha descritti qualche giornale italiano) si agiti un’anima reazionaria di puro stampo ottocentesco. Il giudizio di un altro commentatore romeno rafforza questa impressione:
[Questa] lotta alla corruzione non è che l’equivalente locale dello sciovinismo etnico e religioso che serve da supporto ai surrogati di democrazia occidentale [presenti] in Ungheria e Polonia, dove le elezioni diventano accessori ancora più decorativi di quanto già non siano in Occidente. [6]
Esagerazioni? I toni usati dal filosofo marxista ungherese Gáspár Miklós Tamás in un’intervista a Lili Baier sono apparentemente più soft, ma la sostanza non cambia:
La corruzione [in Romania] è, naturalmente, endemica e immensa, ma la campagna anticorruzione diretta da una parte della burocrazia non elettiva – dal procuratore ai servizi segreti – è condotta in modo arbitrario. Le prove provengono spesso da testimoni che sarebbero finiti sul banco dell’accusa se non avessero stipulato un patto con i procuratori. I tribunali si servono di regolamenti estremamente elastici, in base ai quali l’intera popolazione potrebbe finire in carcere. Ma questo è il meno. Le manifestazioni sono state alimentate dal disprezzo che la giovane classe media liberale prova per i poveri, considerati come l’elettorato del partito governante, il PSD, ritenuto vecchio, decrepito, barbaro. Vi è inoltre il vecchio conflitto fra città e campagna, fra la “progredita” Transilvania [regione a maggioranza di lingua ed etnia ungherese] e le “primitive” Moldova e Valacchia, e via dicendo. […] Questo non è un trionfo della democrazia: è un trionfo della lotta di classe dall’alto. [7]
E la sinistra? In questo quadro drammatico, la sinistra latita. Non perché non abbia preso posizione, ma perché non esiste sul piano organizzativo, esiste solo in rete, in alcune istituzioni accademiche, in alcune riviste, in alcune associazioni, in alcune modestissime organizzazioni. Si tratta di una sinistra giovane, vivace, inserita nel dibattito internazionale, ma che non ha ancora potuto, o saputo, darsi gli strumenti adeguati per entrare in sintonia con quel “popolo di sinistra”, che c’è, ma che è disorientato e non trova altra soluzione che mettersi sotto l’ala protettiva del pur corrotto PSD.
Gli ostacoli da sormontare per questa sinistra non sono pochi. Uno dei principali sta nell’anomala transizione della Romania dal regime burocratico di Ceaușescu all’attuale democrazia “liberaldemocratica”, una “transizione” che ha traghettato nel nuovo regime la vecchia nomenklatura quasi al completo.
La liquidazione del regime burocratico si è infatti risolta nel sacrificio cruento del capo (Ceaușescu e la moglie processati e giustiziati nel giro di poche ore, in un processo talmente farsesco che lo stesso presidente del tribunale ha poi scelto di suicidarsi), cui è seguita la grottesca e macabra messa in scena d’un’inesistente guerra civile [8]. Liquidato Ceaușescu, si è liquidato anche il Partito comunista romeno (PCR), ma gran parte del suo apparato dirigente è rimasto in “servizio attivo” all’interno del nuovo soggetto “rivoluzionario”, il Fronte di salvezza nazionale (FSN). Ed è proprio da questo FSN che trarranno poi origine – mediante una complessa serie di scissioni e fusioni – sia l’attuale PSD, che ne rappresenta la versione aggiornata e socialdemocratizzata, sia il Partito nazionale liberale, che ne rappresenta l’ala convertitasi più rapidamente al capitalismo.
Naturalmente, vi sono stati tentativi di costituire qualcosa “a sinistra” del PSD. I primi sono stati fatti a partire da sopravvissuti al naufragio del PCR, sia nostalgici dei vecchi tempi, sia consapevoli della necessità di un aggiornamento. Dei nostalgici non vale la pena occuparsi, data la loro inconsistenza non solo politica, ma anche “materiale”, e cioè numerica. Sui secondi si può invece spendere qualche parola, se non altro per il fatto che il loro approdo finale, il Partidul Socialist Român (PSR), fa parte del Partito della sinistra europea (insieme a Rifondazione comunista, per intenderci).
Il primo tentativo di recuperare in parte l’eredità politica del PCR lo fa una sua scheggia, che nel 1991 dà vita al Partito socialista del lavoro (PSM, Partidul Socialist al Muncii), che l’anno successivo raggranella un po’ meno di 350.000 voti, il 3 % e 13 deputati: poco, ma potrebbe essere una base da cui partire. Ma non si riparte affatto. Già l’anno dopo il PSM entra in crisi e “partorisce” ben altri sette partiti, tutti “socialisti”. Così, alle elezioni del 1996, l’elettore di sinistra romeno si trova di fronte a una fin troppo generosa possibilità di scelta: gli oltre 800.000 voti chiaramente di sinistra (quasi il 7 %) si dividono pressoché equamente fra PSM, Partidul Socialist (PS) e Partito socialista operaio romeno (PSMR,Partidul Socialist Muncitoresc Român), con qualche rivolo che si sperde in altre direzioni. Nessun deputato viene eletto, naturalmente. In termini elettorali, questo è il massimo tetto raggiunto mettendo nello stesso sacco i vari spezzoni di sinistra. D’ora in poi comincia la discesa.
Nel 2003, infatti, la presidenza del PSM decreta la dissoluzione del partito e l’ingresso della sua maggioranza nel futuro PSD. Una minoranza dà vita ad Alleanza socialista (PAS, Partidul Alianţa Socialistă), che nel 2004 è appunto tra i fondatori del Partito della sinistra europea. Il PAS, diventato nel frattempo (2013) Partidul Alternativa Socialistă, dopo aver tentato invano di riassumere la denominazione del PCR (richiesta respinta dal tribunale), ha vita grama, sia in termini elettorali che di radicamento fra la popolazione. La sua ultima trasformazione risale al 2015, quando si rinomina Partidul Socialist Român(PSR); il suo bottino elettorale nel dicembre 2016 è di poco più di 25.000 voti, lo 0,4 %, e dunque l’irrilevanza.
Se ci siamo dilungati sulle vicende del PSM e poi del PSR è per far vedere come la via della “rifondazione”, sia pure in versione aggiornata e corretta, del PCR, non porti che verso il nulla o quasi. La funzione di parziale protettore delle classi basse le esercita già il PSD, percepito da una parte almeno della popolazione come l’erede, sotto altre spoglie, del PCR. Non lo si ama, ma lo si vota in funzione puramente protettiva. Per ora è difficile fargli concorrenza.
Ma si rende sempre più necessario. E la sinistra anticapitalista, quella non contaminata da impudiche nostalgie ma pienamente cosciente dei nuovi tempi e delle nuove necessità, sinistra anticapitalista che c’è, che dà prova di intelligenza politica e sta prendendo atto con lucidità dei pericoli insiti nella situazione, deve ora dimostrare di esserne all’altezza: uscire dallo stato gassoso in cui si trova (e in parte forse s’è adagiata) per cristallizzarsi in “qualcosa”, un embrione d’organizzazione. C’è un tempo per l’analisi, ma quando meno lo si aspetta arriva anche il tempo per l’azione.
[1] «Ma, se volete aver l’onore di parlargli, gli chiederò udienza per voi, con una buona mancia che avrete la bontà di darmi». Voltaire, La Principessa di Babilonia, BUR, Milano 1956, pag. 73.
[2] Florin Poenaru, What is at Stake in the Romanian Protests? in «Lefteast», 7 febbraio 2017:
http://www.criticatac.ro/lefteast/romanian-protests/
[3] Florin Poenaru, ivi. Corsivo nostro.
[4] Su questa pittoresca e un po’ disgustosa figura si veda lo spietato e, perché no?, divertente ritratto tracciato da Florin Poenaru, dal quale abbiamo preso spunti, in From hero to zero: The spectacular rise and the immediate decline of the Romanian president, «Lefteast», 26 aprile 2016:
[5] Alexandru Dumitrascu, Drumul spre socialism e pavat cu meme antisăraci? In «CriticAtac», 7 febbraio 2017: http://www.criticatac.ro/29408/drumul-spre-socialism-e-pavat-cu-meme-antisaraci/
[6] Ciprian Șiulea, Anticorupţia împotriva retrograzilor – multă ipocrizie, puţin ideal, 7 febbraio 2017, in:http://baricada.org/anticoruptia-impotriva-retrograzilor-multa-ipocrizie-putin-ideal/
[7] Lili Bayer, Romania’s protests and Hungary: Interview with G. M. Tamás, in «The Budapest Beacon», 9 febbraio 2017: http://budapestbeacon.com/featured-articles/romanias-protests-hungary-interview-g-m-tamas/44500
[8] Alla stampa internazionale venne esibita una fossa comune colma di cadaveri di “martiri della rivoluzione”. Si seppe poi che quei cadaveri provenivano dall’obitorio, e appartenevano a persone decedute per malattie o incidenti. In realtà il regime burocratico si sfasciò senza che vi fosse alcuna significativa resistenza. Le violenze attribuite alla temuta polizia segreta, la Securitate, furono in larga misura immaginarie, perché gran parte di essa collaborò al rovesciamento del regime (e non a caso l’attuale SRI è una sua diretta filiazione). Vi furono è vero centinaia di morti, ma quasi tutti causati dal nervosismo delle reclute dal grilletto facile, da equivoci, da “fuoco amico”. I morti accertati prima dell’esecuzione di Ceausescu furono infatti solo 160. La finta breve “guerra civile” servita in pasto ai giornali e alle TV occidentali aveva lo scopo di mascherare il reale svolgimento dei fatti: a una autentica ribellione popolare, la cui scintilla era stata, more solito, un incidente di scarso rilievo, si era sovrapposto un colpo di palazzo organizzato da una significativa parte della nomenklatura.
Transilvania é di maggioranza di lingua ed etnia rumena! Gli ungheresi non sono di maggioranza. Siete mal informati.
Dovrete riscrivere questo articolo, correggendo i dati.
Il motivo di questa grande protesta è stato inizialmente l’abrogazione di un decreto legge, discutibile, che avrebbe visto molti membri autorevoli del Governo scagionati del reato di corruzione. Un decreto legislativo firmato in un battibaleno a tarda notte. In un certo senso questo veloce sistema ci ha ricordato quello che si faceva nei tempi del comunismo, quando si andava a letto incensurati, per poi scoprirsi la mattina colpevoli di qualche reato sul quale avevano legiferato solo poche ore prima. E la notizia veniva data direttamente dalla Securitate che veniva a prelevare i malcapitati alle prime luci dell’alba.