In mostra a Genova Elliot Erwitt, 135 scatti che l’autore ha selezionato personalmente, rivisitando tutto il suo archivio
da Genova, Claudio Marradi
“Elliott Erwitt? Si, conosco il suo lavoro, anche se non lo tengo in grande considerazione. Diciamo che è uno che ci prova”. Parola di uno che lo conosce bene: nientemeno che Andrè S. Solidor, cioè Elliot Erwitt stesso in persona, nel suo alias di affermato artista contemporaneo. E nell’oscenità in lingua inglese dell’acronimo del suo avatar – ASS – sta tutto il senso di un’operazione ironica e autoironica in cui Erwitt dichiara ciò che pensa del mercato della foto d’arte: delle sue stravaganze e dei suoi eccessi, come delle quotazioni stratosferiche del suo mercato, pari solo all’ego dei suoi protagonisti. Come con la serie di scatti di una bambola gonfiabile ripresa nelle pose e nelle situazioni più strampalate, che fanno il verso ai celebri nudi femminili di Helmutt Newton o Robert Mapplethorp. E’ la sezione più divertente e spiazzante di “Elliott Herwitt – Kolor”, la prima grande retrospettiva mondiale di immagini a colori – la K del titolo è un omaggio ai rullini Kodak – che Palazzo Ducale di Genova dedica a un maestro della fotografia contemporanea, da sempre conosciuto per la cifra stilistica dei suoi eleganti scatti in bianco e nero.
Visitabile fino al 16 luglio e curata da Biba Giacchetti, allieva e collaboratrice di lunga data di Erwitt, la mostra raccoglie circa 135 scatti che l’autore ha selezionato personalmente, rivisitando tutto il suo archivio con un impegno che attraversa tutta la sua produzione a colori. Prodotta da Civita Mostre con la collaborazione di SudEst57 e promossa dal Comune di Genova e dalla Fondazione di Palazzo Ducale, l’esposizione trova, in The Art of André S. Solidor, il luogo ideale in questo monello di 88 anni si presenta in una serie di autoritratti in occhiali da sole e baffetti posticci: in costume tirolese, e poi prete cattolico, torero, perfino donna nuda che passeggia lungo i binari del treno (ritratta di spalle). E infine bambino francese in bicicletta che porta una baguette, citando se stesso attraverso quello scatto, uno dei più famosi di tutta la sua carriera, che accoglie il visitatore all’ingresso dell’esposizione. André S. Solidor ama il digitale e il photoshop, la nudità gratuita e l’eccentricità fine a se stessa, ma non rifugge da un impegno vago e un po’ astruso, del tipo sempre condivisibile dalla logica politically correct che presiede inevitabilmente a campagne di comunicazione a sfondo sociale. Come quando fotografa una teste di pesce con un sigaro Coiba in bocca: “l’ho fatto – spiega l’ineffabile Solidor – proprio per mettere in guardia i giovani dal rischio di trasformarsi in teste di pesce che comporta il fumo di tabacco…”. Ed è poi prodigo di consigli ai giovani colleghi a inizio carriera, cui raccomanda di ritrarre sempre persone famose e sempre in grandi formati, secondo la sua formula paraeinsteiniana – “grande, sempre più grande = superfico” – che è come una specie di teoria della relatività generale la cui applicazione garantisce, da sola, il risultato di una buona foto d’arte.
Membro dal 1953 della storica agenzia Magnum, fondata tra gli altri da Henri Cartier-Bresson e Robert Capa, Erwitt ha raccontato con piglio giornalistico gli ultimi sessant’anni di storia e di civiltà contemporanea, cogliendo gli aspetti più drammatici ma anche quelli più divertenti della vita che è passata di fronte al suo obiettivo, utilizzando il colore come tecnica che aveva scelto di dedicare solo ai suoi lavori editoriali, istituzionali e pubblicitari. Dalla politica al sociale, dall’architettura alla moda, alle foto di scena di Hollywood: come il ritratto di gruppo dei protagonisti di “Gli spostati” diretto da John Houston nel 1961, che è l’immagine guida della mostra. E poi le celebrities: Marilyn Monroe, Fidel Castro, Che Guevara, Sophia Loren, Arnold Schwarzenegger, sono solo alcuni dei numerosi Vip colti dal suo obiettivo ed esposti in mostra. Su tutti Erwitt posa uno sguardo tagliente e al tempo stesso pieno di empatia, come nello scatto di un giovane Schwarzenegger in posa in un concorso di culturismo, assediato da tutti i lati dagli sguardi affascinati e ingolositi degli appassionati della disciplina. Perché l’ironia è davvero la chiave stilistica che Erwitt ha saputo mantenere lavorando per tutti i committenti. Perfino nella foto di moda, quando dovendo ritrarre modelli di scarpe ha riempito l’obiettivo di cani di tutte le taglie perché secondo lui i cani sono gli esseri viventi che sulle scarpe hanno da sempre un punto di vista privilegiato. Un’inclinazione naturale che tocca a volte vette surreali, come nello scatto del 1956 di un leone che sembra guidare un’automobile con una bella donna seduta sul sedile di fianco. “Perché tutto è serio, ma in fondo può anche non esserlo” afferma nella sua dichiarazione di una poetica personale che a lui, che ha attraversato a occhi bene aperti quasi tutto il Novecento, nasce forse proprio da un grande senso del tragico dell’esistenza: “Nei momenti più tristi e invernali della vita, quando una nube ti avvolge da settimane, improvvisamente la visione di qualcosa di meraviglioso può cambiare l’aspetto delle cose, il tuo stato d’animo. Il tipo di fotografia che piace a me, quella in cui viene colto l’istante, è molto simile a questo squarcio nelle nuvole. In un lampo, una foto meravigliosa sembra uscire fuori dal nulla”.