di Maurizio Zuccari
Rifiuto d’ogni tradizione, pittura all’aria aperta (en plein air), mito dell’artista scapestrato e insofferente d’ogni convenzione. Questi, in pochi tratti, i punti chiave dell’impressionismo. Una corrente che permeò di sé la pittura dell’Ottocento, tenendo banco nella Francia della seconda metà del secolo, dal Salon des refusés inaugurato da Napoleone III nel 1863 ai primi decenni del nuovo secolo, per poi ramificare in tutta Europa. Finendo per essere sopravanzata da ben altre avanguardie, nei primi decenni del XIX secolo. Da allora, però, l’impressionismo e i suoi variegati interpreti non hanno cessato d’appassionare (impressionare?) il vasto pubblico, finendo per divenire un canone pittorico.
Un ulteriore esempio di tale classicità è nella mostra Manet e la Parigi moderna, inaugurata a Milano al piano nobile di Palazzo Reale – fino al 2 luglio – che intende raccontare il percorso artistico della corrente, a partire proprio da Édouard Manet (1832-1883). Reputato iniziatore della nuova pittura – al punto che Renoir disse di lui: «È importante per noi quanto Cimabue e Giotto per gli italiani del Rinascimento» – nonché del fascino e della modernità di una Parigi in piena trasformazione. Come già Baudelaire, Manet si afferma – a posteriori, avendo in vita anelato a mai giunti riconoscimenti pubblici – come un “pittore della vita moderna” che pulsa nelle strade e nei caffè, all’Operà come nei boudoir. Come già nella mostra chiusa al Vittoriano di Roma esattamente un anno fa, le opere provengono dalla collezione del Musée d’Orsay di Parigi: un centinaio di pezzi, tra cui 54 dipinti (16 di Manet, con una decina tra acquerelli e disegni) e 40 degli artisti coevi: Boldini, Cézanne, Degas, Fantin-Latour, Gauguin, Monet, Berthe Morisot, Renoir, Signac, Tissot. La crème del movimento, insomma.
E come già nella precedente esposizione romana, anche nella rassegna milanese promossa e prodotta da Comune di Milano, Palazzo Reale e Mondomostre Skira (suo il catalogo) e curata da Guy Cogeval, presidente del Musée d’Orsay e dell’Orangerie parigina, con Caroline Mathieu e Isolde Pludermacher, il ritratto che emerge della società parigina del tempo e della corrente pittorica che lo dominò è assai poco naturalista e antiaccademico. Dieci sezioni, dalle marine all’heure espagnole, al volto più o meno in ombra di Parigi, mettono in luce semmai quanto di tradizionale può esservi nella pittura un dì refusée ai saloni ufficiali, al di là di ogni decantata sovversione dei canoni pittorici. Ciò che all’epoca appariva rivoluzione dello sguardo, avanguardia prospettica, oggi testimonia il passare d’un tempo che fu, trasformando quasi in anticaglie pittoriche i corifèi dell’innovazione.
Paradigmatici di un tal radicale rovesciamento concettuale sono due capolavori celebri dell’autore di Dejeuner sur l’herbe, esposti senza scandalo allo sguardo dei visitatori meneghini: Il pifferaio (del 1866), manifesto della rassegna, rifiutato quell’anno al Salone e reputato al tempo da Zola, grande estimatore di Manet, un’opera capace di bucare il muro. O il celebre Balcone (1868-69) dove, tra l’inferriata d’un verde brilloso e l’ombrellino in tinta di di Fanny Claus, che dietro a Berthe Morisot – l’esponente femminile e musa del gruppo, oltre che sposa di Eugène, fratello di Édouard – spicca col bel faccino smunto accanto ad Antoine Guillemet, all’impiedi sullo sfondo oscuro, con tanto d’ortensia in capo. Altri tempi, altre pruderìe, ma sempreverdi e in voga per essere inaugurate l’8 marzo, festa della donna, prodromi di primavera.