Teatro, in scena a Genova il collettivo catalano Agrupación Señor Serrano con A House in Asia
da Genova, Claudio Marradi
C’era una volta una casa in Pakistan… Anzi no, veramente le case erano tre. La seconda era in North Carolina e la terza in Giordania. Identiche l’una all’altra, fecero – anche se tutte e tre di cemento armato e a differenza che nella fiaba dei tre porcellini – tutte una brutta fine: sulle rovine della prima oggi giocano i bambini, sui resti della terza pascolano le pecore e con le macerie della seconda hanno costruito altre case (finte). Perché il lupo cattivo questa volta era già dentro e fu stanato dai cacciatori buoni. O almeno è così che ce l’hanno raccontata. Anche al cinema, con Zero Dark Thirty di Kathryn Bigelow, che si fece costruire la copia esatta del primo edificio, dove il nemico pubblico numero uno inseguiva il suo sogno bucolico di “coltivare l’orto e piantare le fragole in giardino”, proprio per raccontare una caccia all’uomo durata dieci anni, condotta da un’ambiziosa e ostinata agente della Cia. E culminata nell’operazione Neptun Spear con l’uccisione di Bin Laden nel cosiddetto compound di Abbottabad. Del quale la seconda casa, quella costruita negli Usa, fu invece la copia in cui si addestrarono i Navy Seals, incursori della marina americana, fino a far diventare la vera operazione una pallida ombra di esercitazioni ripetute allo sfinimento. Complicato? Si, ma tutto vero. O quasi.
Ed è proprio in questo gioco di riflessi tra realtà e finzione, in questa moltiplicazione quasi warholiana delle immagini della location e dell’azione del dramma, la chiave interpretativa di una straordinaria pièce di teatro multimediale(?), postmoderno(?), che non si sa neanche come definire se non come una delle cose più innovative e coinvolgenti viste su un palcoscenico negli ultimi tempi. Approda, piovuto dal cielo come un ufo, al Teatro della Tosse di Genova “A House in Asia” del collettivo catalano Agrupación Señor Serrano. Produzione già insignita del Leone D’argento alla Biennale Venezia 2015, imprevedibile incontro tra teatro e cinema, tra videogioco e artigianato, tra satira, storia ed estetica che eleva a cifra stilistica l’incertezza e l’opacità di quella “fog of war” del campo di battaglia di cui parlano gli strateghi militari. E se Eschilo scriveva già mezzo millennio prima di Cristo che in guerra la prima vittima è la verità, qui se ne fa un upgrade radicale arrivando – come direbbe il filosofo jean Baudrillard – al delitto perfetto di uccidere la stessa idea di realtà, sterminata per moltiplicazione virale nei riflessi che si rincorrono all’infinito sugli schermi dei nostri device.
Pau Palacios, Vicenç Viaplana e David Muñiz scatenano sulla scena un dispositivo narrativo intelligentemente pop che mescola modelli in scala, proiezioni video, regia in presa diretta, videogiochi, mondi virtuali e performance, musica elettronica e rap, storia, letteratura e danze folk western. Il tutto per raccontare i primi dieci anni di un nuovo secolo partorito nel ferro e nel fuoco del più grande attentato terroristico di sempre. Perché questa è una fiaba che inizia là dove tutto è cominciato, con un videogioco che riproduce in soggettiva gli ultimi minuti di vita dei piloti che, quel giorno di settembre del 2001, portarono il volo American Airlines a schiantarsi contro la torre nord del World Trade Center di New York. Stacco. Voce fuori campo di Mark Owen, pseudonimo di Matt Bissonette, il Navy Seal cui la sorte riservò di uccidere il Lupo cattivo. Seduto nel suo pick up rosso nel parcheggio deserto di un drive-in illuminato dai lampi di un temporale in avvicinamento, rimugina su ciò che è stato fra nostalgia e disillusione: “crediamo di essere tessere di un grande puzzle e invece siano solo frammenti di uno specchio rotto che scivolano in una clessidra”.
E citazioni cinematografiche, Blade Runner su tutte. Affaccendandosi attorno a un palco allestito come un grande modellino per appassionati di trenini, i tre interpreti sembrano tre ragazzini un po’ nerd – uno porta perfino i calzoni corti al ginocchio – che giocano seri coi soldatini. Ma quando i loro gesti vengono ripresi da una videocamera e proiettati in diretta sul grande schermo dietro di loro è subito cinema, dialoghi in inglese sottotitolati in italiano. E poi birre e cheeseburger, cowboy e indiani, uno sceriffo ossessionato da una balena bianca che parla con le voci di George Bush junior, Obama e Donald Trump e ha il volto di Gregory Peck, capitano Achab nel film di John Houston del 1956. A fine spettacolo smontano il loro teatrino di guerra e lo mettono a disposizione del pubblico incuriosito, come bambini orgogliosi dei loro giochi e della magia creata con quattro cosette: una manciata di soldatini e un paio di smartphone, un modellino di elicottero e una macchinina, una torcia tascabile, una telecamerina e un pc portatile. E naturalmente il modellino della casa di Abbottabad, divenuto di volta in volta covo di Bin Laden, studio ovale della Casa Bianca e aula scolastica di un irresistibile ripasso accelerato di circa 1300 di guerre di religione e scontro di civiltà tra Islam e Occidente. Poi si siedono in un angolo del palco, a rispondere alle domande degli spettatori, chiacchierare e sorseggiare una birretta. Tre ragazzi che passano un sabato sera come un altro. Allo storico teatro genovese il merito di esserci aggiudicata una delle sole quattro tappe della loro tournee italiana.
Voi non perdeteli di vista, se prima o poi dovessero passare dalle vostre parti vietato perderli.