Terrevive, Campo libero, Banca della Terra: all’apparenza servirebbero per dare la terra ai giovani, in realtà sono privatizzazioni inconfessabili di terre pubbliche. La rabbia dei contadini
di Checchino Antonini
Li chiamano in modo suggestivo – Terrevive, Campo Libero – oppure in modo più ambiguo – Banca della Terra – e vengono propagandati come un’opportunità per il ricambio generazionale in agricoltura. Sono i provvedimenti con cui il ministero delle Politiche agricole, alimentari e forestali, di concerto con il ministero dell’Economia e delle finanze, hanno dato il via da tre anni alla vendita e, in minima parte, all’affitto di migliaia di ettari di terreni, destinandoli innanzitutto agli agricoltori under 40. Terre dislocate soprattutto in Calabria, Puglia, Lazio, ma ci sono appezzamenti di rilievo anche in Toscana, Lombardia ed Emilia Romagna.
Aste al rialzo e Grande distribuzione
Coldiretti è entusiasta: «Negli ultimi anni stiamo assistendo a un vero e proprio ritorno alla terra, soprattutto da parte dei giovani», spiega a Left Maria Letizia Gardoni, leader delle Giovani imprese di Coldiretti. E ci fa notare che nel 2016 gli under 35 che hanno scelto di lavorare in agricoltura sono aumentati del 12%: un record se paragonato alla crescita di altri settori attestata sull’1%. «Questi risultati non sono un caso bensì il risultato di una serie di politiche», tiene a precisare Gardoni, riferendosi al decreto “Campo libero”, ai finanziamenti di Ismea. E, da ultimo, ma solo a livello temporale, al progetto Banca della Terra che, grazie a un sistema di mappatura delle terre permette di individuare i terreni agricoli di natura pubblica in vendita e riportare l’agricoltura anche le aree incolte. «Un progetto importante – secondo Coldiretti – perché a regime prevede la messa a disposizione di ben 22mila ettari di terra, valorizzando un patrimonio fondiario pubblico, a oggi scarso, e fornendo una soluzione concreta agli ostacoli che limitano un vero e duraturo ricambio generazionale in agricoltura, ovvero l’accesso al credito, alla terra e gli eccessivi oneri burocratici». Per Coldiretti, insomma, va tutto bene. Ma, è lecito chiedersi, se le aste sono al massimo rialzo mentre la Grande distribuzione organizzata impone il doppio ribasso e si accaparra così la produzione ortofrutticola (lo denuncia la campagna Filiera Sporca), quale modello di agricoltura c’è nei piani del governo?
Quale modello di agricoltura
«Vendere terra significa non intervenire sul modello di agricoltura», dice Marco Bersani di Attac. «Chi compra è giovane ma ha alle spalle imprese familiari solide. Altra cosa sarebbe il comodato gratuito, le corsie preferenziali per le cooperative di agricoltura sostenibile, bio. Così, invece, chiamano Terrevive quelle che sono terre chiuse, una nuova, enclosures», dice Bersani riportando alla memoria la recinzione dei terreni demaniali da parte dei proprietari terrieri della borghesia mercantile avvenuta in Inghilterra tra il XVII ed il XIX secolo. Non c’è nemmeno l’ombra dell’entusiasmo di Coldiretti nelle parole di Antonio Onorati, presidente del Centro Internazionale Crocevia: «È un decreto vergognoso che manda all’asta i terreni agricoli demaniali, all’apparenza per dare lavoro ai giovani, un refrain che nasconde un processo al limite della legalità». Una tentata dismissione che, fa notare Onorati, era stata bloccata nel primo tentativo del governo Monti. Poi venne un bando gestito dalle regioni. Il peggiore dei bandi è stato quello dell’Emilia Romagna: al rialzo d’asta, un meccanismo che favorisce le mafie nella regione con il maggior tasso di penetrazione dell’economia criminale nel tessuto “normale”. Senza contare, poi, che la Costituzione, poi, prevede disciplina la proprietà privata e vincola a criteri di utilità sociale la proprietà della terra.
Economia del debito, non solo in Italia
«Il prezzo più basso che si conosce è 20mila euro l’ettaro, l’obbligo è dare il 10% di anticipo», spiega ancora Onorati. Messa così è un pezzo dell’economia del debito: «Anche ammesso che tu non sia un mafioso o uno ricco di famiglia, sei già morto prima di partire. Insomma è uno strumento che serve a ripulire soldi dentro un processo di privatizzazione».
«Bisognerebbe affittare le terre a prezzi calmierati così che sia possibile pagarla col proprio lavoro piuttosto che accendere mutui in banca», dice anche, dalle Langhe, Fabrizio Garbarino, 44 anni, allevatore di capre in una cooperativa e presidente del Consorzio tutela robiola di Roccaverano, il primo caprimo doc con decreto di Pertini (ne vanno fieri) del 1979.
Garbarino parla a nome dell’Ari, associazione rurale italiana, contadine e contadini ma anche persone che hanno a cuore i destini di socialità delle zone emarginate «da politiche sbagliate – dice ancora – anche se l’80% delle aziende agricole sono proprio in zone come queste». Il loro è un concetto «forse retrò, certamente biblico, ma ci piace: la terra non è di chi la coltiva ma di tutti».
Ritorno al latifondismo
Attualmente, in Italia, il 3% dei proprietari controlla il 48% delle terre, una concentrazione superiore a quella che esisteva nel 1948 quando venne promulgata la riforma agraria che avrebbe dovuto sconfiggere il latifondismo.
Ma il processo di concentrazione si riscontra anche altrove, come in Andalusia dove il governo a guida socialista «vuole vendere alle multinazionali le terre dei braccianti», racconta a Left Sandra Morello del Sindicato de Obreros del Campo. Si tratta di storiche occupazioni di cooperative contadine che la “baronesa” Susana Diaz – leader del Psoe e nemica giurata di Pedro Sanchez, troppo di sinistra – vuole privatizzare. «Eppure la regione, a sud della Spagna, è un territorio dove si coltiva di tutto e potrebbe servire a garantire dignità ai braccianti e sovranità alimentare al territorio», aggiunge Morello. In Romania, invece, il problema si chiama land grabbing – accaparramento della terra – e lo praticano imprenditori italiani, come testimonia Attila Szocs, direttore dell’associazione di 4mila contadini Ecoruralis.
Transilvano e contadino a sua volta, Attila spiega che quattro milioni di ettari, soprattutto nel sud, sono già nelle mani di investitori, meglio: speculatori con nessun interesse per l’agricoltura, venuti anche dalle Barbados per comprare ampi appezzamenti e rivenderli in 10-20 anni. I campioni italiani di land grabbing rumeno si chiamano Generali Assicurazioni, e nei loro campi si coltiva grano per l’esportazione. Di fronte ai processi di concentrazione della proprietà fondiaria, lo scorso 21 marzo, è intervenuta la commissione Agricoltura dell’Europarlamento con un rapporto (ancora da approvare) che suggerisce di adottare un nuovo strumento giuridico.
L’emergenza è l’abbandono
Torniamo in Italia. Che «la svendita della terra pubblica» sia «un fallimento» lo dice anche Andrea Ferrante della Città dell’Altra Economia di Roma: «Se vendi fai solo cassa, invece bisognerebbe dare la terra in concessione». Ferrante coltiva ortaggi nel Viterbese ed è testimone di cosa combina la Ferrero in quella zona ricca di nocciole pregiate per la Nutella: «Ferrero punta alla monocoltura e impone prezzi stracciati: così i contadini diventano operai di catena. Solo nocchie sgusciate, prodotto che richiede l’uso massiccio di pesticidi. Da queste parti è ormai emergenza ambientale». Un’emergenza alla quale si prova a dare qualche risposta dal basso. Tredici Comuni si sono associati in un “bio-distretto” per un altro modello di sviluppo. E in fondo allo stivale la risposta è la stessa: «Ci siamo sempre opposti alla vendita della terra pubblica. È meglio, molto meglio, un uso sociale alla stregua dei beni confiscati alle mafie», dice Salvo Cacciola, che presiede le Fattorie Sociali Sicilia, imprese agricole che offrono servizi culturali, educativi, assistenziali, formativi e di inclusione per soggetti deboli o aree svantaggiate. La Banca della Terra, secondo Cacciola, dovrebbe non solo costituire una banca dati ma anche un sistema trasparente per l’accesso all’agricoltura, nei terreni pubblici ma anche in quelli privati. E in quelli abbandonati, soprattutto.
Un fenomeno molto visibile in Sicilia: «Oggi l’emergenza siciliana è l’abbandono e l’impoverimento delle zone interne collinari, aree in dissesto idrogeologico o milioni di ettari di bosco concessi ad aziende riconducibili alle mafie che lucrano sui contributi comunitari. Eclatante il caso delle aree demaniali del Parco dei Nebrodi», fa notare il presidente di Fattorie Sociali che, insieme alla Flai Cgil, studia un sistema di consultazione sui temi dell’agricoltura sociale.
Il pericolo, e concorda anche Coldiretti, è che vigneti e altre coltivazioni pregiate vengano sostituiti da distese di pannelli solari. «Serve una vera ricognizione dei terreni – spiega Cacciola – per evitare il bluff degli anni 50 quando, quando in nome della riforma agraria vennero bidonati migliaia di contadini con l’assegnazione di terreni “arroccati”, piccoli, impervi, lontani dai centri abitati, che non fruttano nulla». Il governo regionale, intanto, rimane immobile e concentrato nell’imminente campagna elettorale. Eppure in Sicilia crescono le esperienze di eco-agricoltura, seppur minacciate dai tentativi di speculazione sulle aree limitrofe alle città, alle riserve e sul litorale. Un esempio? La calata dei veneti, a partire da Zonin, nei vigneti preziosi ai piedi dell’Etna.
Il decreto in cifre
I terreni inseriti nel Decreto Terrevive sono dislocati su gran parte del territorio nazionale. La maggiore concentrazione è in regioni come Calabria, Puglia, Lazio, ma ci sono appezzamenti di rilievo anche in Toscana, Lombardia ed Emilia Romagna. In totale si tratta di 2.480 ettari di terreni appartenenti al demanio dello Stato più 2.148 di terre in uso al Corpo Forestale dello Stato più 882 di terreni di proprietà del Centro per la Ricerca e la Sperimentazione in Agricoltura. Nel corso del 2017 saranno 630 gli ettari di terreni a vocazione agricola che l’Agenzia del Demanio metterà sul mercato: 350 ettari in vendita e 280 in affitto. Nel corso dell’anno le liste potranno essere aggiornate. Dal 2014 a oggi l’Agenzia ha individuato circa 1.500 terreni adatti per l’agricoltura o l’allevamento e ne ha già messi a bando quasi il 50% per un valore di 3 milioni di euro. Solo una quota minima del 20% di questi terreni è riservata all’affitto, anche in questo caso con diritto di prelazione all’imprenditoria giovanile agricola e con una durata della locazione non inferiore ai 15 anni. Ai terreni venduti o affittati non può essere attribuita una diversa destinazione urbanistica prima di 20 anni dalla trascrizione dei relativi contratti nei pubblici registri immobiliari. Nel caso di terreni occupati, invece, il diritto di prelazione è riconosciuto prioritariamente ai conduttori.