Lo stranissimo suicidio in carcere di un infermiere sindacalista arrestato per errore. Si chiamava Mario Scrocca. Un’inchiesta mai fatta davvero
di Francesco Ruggeri
Primo maggio del 1987, alle 21.30 viene dichiarata, dai medici del S. Spirito di Roma, la morte di Mario Scrocca. Era stato prelevato il giorno prima da casa, accusato di un pluriomicidio avvenuto quasi dieci anni prima; su sua espressa richiesta durante l’interrogatorio era stato sottoposto a vigilanza a vista. Il ragazzo (27 anni) costretto in isolamento era sorvegliato con la cella aperta. Per un “errore” nel cambio di consegna degli agenti penitenziari, la sorveglianza a vista si trasforma in controllo ogni dieci minuti dallo spioncino.
Scrocca fu arrestato per il duplice omicidio di due neofascisti in via Acca Larentia nel gennaio 1978 sulla base delle rivelazioni di una pentita Livia Todini (all’epoca dei fatti quattordicenne), che parlò di un certo Mario riccio e bruno ma non lo riconobbe nel corso del riscontro fotografico. Questa è una delle storie contenute nel sito di Acad, l’associazione contro gli abusi in divisa, e sulla quale sta per uscire un documentario che verrà presentato l’11 maggio al Cinema Palazzo di Roma.
Alle 20 del primo maggio, orario del cambio di guardia, gli agenti trovano il giovane impiccato, non in una cella antisuicidio, ma in una cella anti impiccagione. Riuscì ad impiccarsi per uno scarto di 2 millimetri usufruendo dello spazio del water, incastrando la cima del cappio nella finestra a vasistas, cappio confezionato con la federa del cuscino scucita e legata alle estremità con i lacci delle sue scarpe (che erano stato confiscati insieme alla cintura al momento della carcerazione); lacci che torneranno magicamente sulle scarpe del ragazzo (uno regolarmente allacciato) quando arriverà al S.Spirito.
I primi soccorsi vengono effettuati direttamente a Regina Coeli, sembra, nella stessa cella, poi il detenuto viene portato all’ospedale che dista circa 500 metri dalla casa circondariale, che purtroppo sono contromano, 1.6 km per un tempo stimabile al massimo in 10 minuti. Il trasporto avverrà nel portabagagli di una 128 Fiat familiare, anziché sull’autoambulanza di servizio del carcere. Due agenti di custodia e un maresciallo, senza alcuna presenza del medico che avrebbe dovuto prestare teoricamente il primo soccorso; appare evidente ai sanitari dell’Ospedale che nulla è stato tentato per salvare Mario. Arriverà al S. Spirito alle 21.00 già cadavere. Non sarà permesso ai familiari (avvisati per altro al telefono e senza qualificarsi) di vedere il corpo fino alle 6 del mattino successivo, che non presenta tracce di lesioni se non per l’enorme ematoma sulla spalla destra e sul collo, solcato da larghi e profondi segni, dichiarati dagli stessi sanitari, non prodotti da stoffa.
Tre giorni dopo la morte di Mario, il Tribunale del Riesame revocherà il mandato di cattura.
Dopo la costituzione come parte civile, nel procedimento aperto contro ignoti, della moglie, spariranno tutti i fogli di consegna, di ricovero e requisizione degli oggetti al momento dell’arresto. A distanza di un anno il procedimento si chiuderà in primo grado senza responsabili se non lo stesso giovane.
L’accaduto è sempre stato volutamente nebuloso fin dall’arresto su dichiarazioni di seconda mano di una pentita che avrebbe appreso notizie da una persona non rintracciabile. Evidenti le irregolarità nella carcerazione, le stranezze della morte del giovane e nei referti autoptici.
Nessuno ha mai dato risposte se il giovane sia “stato suicidato” o se sia stato istigato al suicidio, reato che all’epoca non esisteva.
La responsabilità “reale” di quel giovane è stata avere un nome troppo comune, una famiglia, un bimbo di due anni, un lavoro stabile, essere militante di Lotta continua e poi tra i fondatori delle RdB del settore sanitario, amare il suo lavoro, la sua vita e le sue convinzioni politiche.