La premier britannica, paladina dell’uscita dall’Ue, col voto anticipato di giugno conta di fare tabula rasa dell’opposizione. E anche Banksy dice la sua sulla Brexit
di Maurizio Zuccari
A vederla di prim’acchito, pareva un film d’orrore. Toni foschi da tregenda, capelli scarmigliati al vento, sguardo torvo davanti ai cronisti assiepati al numero 10 di Downing street. A completare il look neogotico, labbra carminio e mise blu da “hard brexit”. Ha sorpreso un po’ tutti la premier britannica Theresa May nell’annunciare il voto anticipato in Gran Bretagna, dopo aver giurato il contrario, a riprova di come non solo di là dall’Atlantico l’elite politica cambi opinione in un batter d’occhi.
Fatto è che la paladina della Brexit dura senza paura non ha agito d’impulso, come pare d’uso alla Casa Bianca, ma forte di una triplice consapevolezza e con l’obiettivo dichiarato di sbarazzarsi in un colpo d’ogni oppositore. A partire dai laburisti di Jeremy Corbyn che i sondaggi danno per spacciati, oltre che spaccati su una leadership vista a un tempo troppo radical e floscia. E che Dio – o chi per lui – li scampi se dovesse tornare in campo Blair.
Non se la passano meglio i liberaldemocratici di Tim Farron, anch’essi destinati a fare da scendiletto alla discesa della bianca Teresa. Eppure, ognuno dei leader in questione ha accolto a braccia aperte la dichiarazione di guerra che li vedrà andare al preannunciato massacro elettorale, a dare per buoni i sondaggi, a meno di clamorose sorprese. Votando senza battere ciglio la mozione per lo scioglimento dei Comuni e le elezioni, l’8 giugno. Valli a capire.
Unici astenuti, a Westminster, i nazionalisti scozzesi di Nicola Sturgeon. La sola a ribadire il no alla Brexit, e all’Inghilterra in sé, chiedendo un nuovo referendum sull’uscita dal Regno Unito, prodromica a un ritorno nell’Ue, dopo quello fallito per poco nel 2014 e costato la testa al suo predecessore. La neolady di ferro ha replicato con un ghigno, forte della convinzione che nessun minacciato distacco della Scozia dall’Unione – tra uno o due anni – potrà danneggiarla. Per lei dopo l’8 giugno potrebbero aprirsi praterie che manco la lady di ferro originale aveva mai sognato, coi Conservatori a sfiorare i 400 seggi e gli altri, indipendentisti compresi, al palo.
Alla consapevolezza d’avere di fronte nani politici incapaci di farle ombra, e dunque alla possibilità di fare tabula rasa d’ogni opposizione parlamentare, la May unisce quella di voler cogliere l’attimo pro Brexit. Visto che l’uscita dall’Ue dipinta dalle Cassandre europeiste come una tragedia epocale non ha portato danni economici o d’immagine, tutt’altro, meglio andarci giù duri e farla finita col triccheballacche degl’indecisi. La sua fuga in avanti per la vittoria è tutto fuorché un azzardo e lei, la diretta erede di Margareth Thatcher, l’unica rampolla d’uno storico partito europeo distante dall’essere travolta dall’onda dei populismi. Alla faccia dell’Europa.
E in faccia all’Europa, con gran clangore di social & media, Banksy ha detto la sua sulla May-Exit strategy, o Brexit che dir si voglia. Un bel murale con la bandiera blu dell’Ue sulla facciata bianca d’un palazzo dalle parti delle già bianche e mitiche scogliere di Dover, dove un operaio spiccona la dodicesima stella dall’Unione europea. Non è chiaro, però, né l’ufficio stampa del blasonato artista di strada lo dice, se anche lui considera quel che resta della classe operaia inglese straziata dalla Thatcher e pure da May, corrèa di questa e della sua fuga in avanti. Già il principe dei writer, tempo fa, aveva omaggiato i migranti accampati a Calais d’una delle sue famose opere. Come dire che, voglia o non voglia, la già perfida Albione dovrà continuare a guardarsi dalla vecchia Europa. S’alzano i muri, e pure i murali.