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Ballottaggi e salvabanche, una domenica di destra

L’astensione record ai ballottaggi consegna molte città al centrodestra mentre il governo varava l’ennesimo “salvataggio” per le banche a spese dei lavoratori

di Franco Turigliatto

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Come già i risultati del primo turno prospettavano le forze del centro destra, riunite per l’occasione, si sono nettamente affermate nel turno dei ballottaggi per l’elezione dei sindaci e dei consigli comunali, conquistando una serie di città che tradizionalmente erano governate dal centro sinistra. Le politiche di Renzi e soci danno i loro frutti bacati.

In particolare le destre vincono in una città come Genova, governata dal centro sinistra da 25 anni, ma anche a La Spezia, a Piacenza, a Pistoia, a Catanzaro, ad Alessandria, a Sesto San Giovanni, a Monza, a Como, ecc. e, a sorpresa, anche a L’Aquila.

La sconfitta di Renzi è netta e si aggiunge alla debacle subita il 4 dicembre nel referendum e alla scissione del suo partito, non certo superate dalla sua “trionfale” rielezione alla segreteria del PD. L’esclusione del M5S dal ballottaggio del principali città che era stata salutata come una vittoria dai dirigenti del PD, ha semplicemente aperto la strada al successo della Lega, di Forza Italia e dei loro altri alleati di destra. Per altro il M5S vince 8 dei 10 ballottaggi in cui era presente, in particolare sconfigge inaspettatamente il Pd in una città come Carrara, da sempre roccaforte della sinistra. E a Parma Pizzarotti prevale facilmente sul PD. Le vittorie del centro sinistra a Padova, Lucca, Taranto e Lecce non mutano questo quadro di pesante sconfitta che riaprirà certamente il conflitto all’interno del PD e più in generale la discussione delle forze che in forma più o meno satellitare intorno ad esso gravitano, anche perché appare chiaro la disaffezione al voto di una parte consistente del suo elettorato, profondamente deluso dalle politiche portate avanti da questa forza politica.

Infatti l’elemento più significativo e grave, che ancora una volta viene banalizzato e presentato quasi normale dai media, è il dato della partecipazione al voto: solo il 46% delle/dei aventi diritto si è recato alle urne (appena il 42% in una città come Genova), ma che è sceso sotto il 40% in alcune città come Taranto (32%); sono poche le città, tra cui Padova e L’Aquila in cui si è superato il 50%.

Da questo punto di vista anche la vittoria delle destre mostra tutti i suoi limiti. Si parla infatti sempre di percentuali di voto e non di numeri assoluti che invece indicano la reale e relativa forza delle diverse organizzazioni politiche.

Ma soprattutto la percentuale dei votanti mostra che i sindaci e i consigli eletti hanno un consenso che nel migliore dei casi si aggira intorno al 25% degli elettori; sono del tutto minoritari nella società, e quindi nei fatti illegittimi, privi di un reale sostegno popolare; le loro maggioranze nei consigli sono poi del tutto artificiali, alterate dai meccanismi del premio di maggioranza, che comprime le minoranze o le esclude del tutto anche grazie alla drastica riduzione del numero dei consiglieri comunali operata in nome della lotta “ai costi della politica”. E’ questa la concezione che la classe dominante e i suoi partiti hanno della democrazia. Visto poi che entrambi gli schieramenti praticano le politiche del capitale, cioè il liberismo e l’austerità, non c’è da stupirsi che una parte cospicua dell’elettorato non partecipi al voto o alterni, a seconda delle circostanze, la sua scelta di voto.

E infatti mentre i cittadini andavano a votare il cosiddetto “pilota automatico del capitalismo”, che automatico non è, ma che corrisponde a precise scelte delle forze capitaliste, cioè dei padroni, attraverso il governo Gentiloni ha provveduto a “salvare le banche venete”.

In realtà, come è noto, questo “salvataggio”, permette a Banca Intesa di acquistare i 2 istituti di crediti per 1 euro, appropriandosi dei loro asset positivi, le cosiddette parti sane, e lasciando invece allo Stato i debiti, i crediti deteriorati ed anche la gestione degli esuberi (si parla di 4 mila), cioè delle lavoratrici e dei lavoratori che perderanno il posto di lavoro per effetto della fusione. Sono 17 miliardi di euro che lo stato italiano dovrà sborsare in tempi più o meno ravvicinati (di cui 5,2 miliardi subito) per fare questo regalo a Banca Intesa, per salvare azionisti e obbligazionisti e “tutelare” 200 mila imprese. Questa decisione fa seguito al “salvataggio” delle banche toscane e dell’MPS che portano ad oltre 30 miliardi di euro l’intervento pubblico per preservare le banche, senza fare l’unica cosa che andrebbe fatta, nazionalizzarle, facendo pagare azionisti e manager responsabili di un disastro annunciato.

Ancora una volta siamo davanti al “capitalismo perfetto” per i padroni: privatizzare i profitti, socializzare le perdite, farle ricadere sullo stato, cioè sulle lavoratrici e sui lavoratori che reggono il maggior carico delle tasse.

Lo stato non deve spendere un soldo di più per la sanità, le pensioni, la scuola, e il welfare e si grida allo scandalo e agli sprechi quando si parla di spesa pubblica, ma quando si tratta di salvaguardare il portafoglio dei potenti, basta una riunione del consiglio dei ministri di poche ore per garantirlo.

Questi sono i nodi di fondo, sociali ed economici su cui la vera sinistra si deve impegnare.

Vedremo come nelle prossime settimane la discussione tra i partiti sulle elezioni politiche riprenderà; vedremo anche come ne discuteranno le forze della sinistra, una discussione di cui certo noi siamo partecipi difendendo la prospettiva di una reale coalizione antiliberista e anticapitalista che metta al centro della sua azione la ricostruzione di un movimento di lotta della classe lavoratrice.

Una versione di questo articiolo è comparsa anche sul sito anticapitalista.org

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