Sembra che tutto alla fine si risolva con numeri e percentuali, ma dietro ogni femminicidio c’è una cultura misogina
di Marina Zenobio
Morire di femminicidio, per il solo fatto di essere donna e come tale considerata dal proprio compagno o ex compagno una proprietà che si ha anche il diritto di annientare nell’identità e nella vita stessa, un “qualcosa” che non ha alcuna facoltà di decidere, e soprattutto di decidere quando è il momento di interrompere la relazione. Per scomodare la criminologa e attivista femminista sudafricana Diana Russel “il femminicidio si estende al di là della definizione giuridica di un assassinio e include quelle situazioni in cui la morte della donna rappresenta l’esito e o la conseguenza di atteggiamenti o pratiche sociali misogine”.
E’ così che in Italia sono morte 124 donne nel 2011 e 111 nel 2016. Per quanto riguarda l’anno in corso, lo scorso 4 luglio, con malcelato ottimismo, il capo della polizia Franco Gabrielli dichiarava, in un’audizione davanti la Commissione d’inchiesta sul femminicidio, che nei primi cinque mesi del 2017 erano stati commessi 29 femminicidi, il 40% in meno rispetto allo stesso periodo del 2016.
Poi ci sono stati i 4 femminicidi di giugno e i 5 commessi nella prima metà di luglio e si sale a 38 donne uccise, una ogni quattro giorni. Un bollettino di guerra.
Le storie di queste donne sono tutte simili
Il 14 luglio Manuela Picci, 26enne di Cagliari, ultima in ordine di tempo, è stata per così dire “fortunata”. E in coma mentre il suo fidanzato, credendola morta dopo averla massacrata di botte per gelosia, si è ucciso.
Lo stesso giorno una donna rumena, il cui nome non è stato reso noto, è stata uccisa a coltellate dall’ex marito il giorno prima dell’udienza di separazione.
Il 13 luglio a Dragoni, in provincia di Caserta, la 48enne Maria Tino è uccisa a colpi di pistola dal compagno che stava cercando di lasciare.
Sempre il 13 luglio, a Bari, Donata De Bello, 48 anni, dopo l’ennesima litigata viene accoltellata a morte dal marito.
Il 6 luglio, di nuovo a Bari, la 30enne polacca Anita Betata Rzepecka cade e muore dopo aver ricevuto un duro colpo dal compagno che si è difeso dicendo: “non aveva lavato i piatti”.
Ed è solo il drammatico quadro dei femminicidi occorsi nella prima metà del mese di luglio.
Perché le donne non denunciano?
E di nuovo molti si chiedono perché le donne non denunciano prima che gli abusi subiti dai partner o ex partner arrivino al drammatico finale. Come se la prevenzione e il contrasto alla violenza sulle donne dipendesse esclusivamente dalla denuncia.
In Italia, la maggior parte delle violenze non sono denunciate perché, per prendere a prestito le parole di Rashida Manjoo, relatrice speciale ONU sulla violenza contro le donne, sono violenze “perpetrate in un contesto culturale maschilista dove la violenza domestica non è percepita come un crimine”.
Le donne in Italia non denunciano anche perché nella maggior parte dei casi “le vittime sono economicamente dipendenti dai responsabili della violenza”.
Le donne non denunciano perché la percezione che hanno è che “le risposte fornite dallo Stato non sono adeguate per riconoscere il fenomeno, perseguire legalmente gli autori di tali crimini e garantire assistenza e protezione alle vittime”.
Le donne non denunciano perché in Italia gli stereotipi di genere sono profondamente radicati e predeterminano i ruoli di uomini e delle donne nella società.
Per questo il Piano nazionale contro la violenza alle donne, voluto dal governo Letta nel 2013, non ha funzionato e non funzionerà. Perché ha trascurato il dato più importante per combattere un fenomeno che non è emergenziale ma strutturale. Quello di cui c’è bisogno sono interventi per modificare la cultura, per combattere gli stereotipi, a partire dalle scuole primarie, il riconoscimento dei centri antiviolenza che, da molto tempo prima che la politica e media si rendessero conto del “fenomeno”, sono in prima linea a fianco delle donne vittime di violenza. Ed infine se veramente si vuole contrastare la violenza di genere, lo Stato deve farsi carico delle donne che decidono di denunciare, dando loro sostegno economico per smarcarle dalla dipendenza economico dal partner violento.
Non si può pensare a una soluzione del problema solo da un punto di vista repressivo, un anno in più o in meno a chi agisce violenza su una donna. Il punto è mettere in discussione la matrice patriarcale della nostra società e la sua intera struttura. Altrimenti continueremo a scrivere e a leggere nomi, numeri e percentuali di donne uccise perché donne.