In mostra all’anfiteatro Flavio storia e mito del monumento più famoso del mondo occidentale
Se la canicola romana non vi scioglie e alle pietre che raccontano storie, anzi che si fanno storia, non sapete resistere, è la mostra che fa per voi. Ma oltre la storia è il mito che si racconta in Colosseo, un’icona, all’interno dell’anfiteatro Flavio, meglio noto appunto come Colosseo. Se siete disposti a sfidare l’afa, la fila al monumento più visitato d’Italia – oltre sei milioni le presenze dello scorso anno – immarcescibili centurioni in posa, ambulanti di carabattole e di cibarie che di made in Italy non hanno neppure una vaga pretesa, salite al secondo ordine e, da lì, potete partire per una carrellata storica che dalla Roma dei Cesari giunge all’oggi. Da sempre, il colosso voluto dall’imperatore Vespasiano a margine dei Fori per dare quei giochi di sangue che assieme al pane e alle guerre non potevano mancare al popolo, inaugurato dal figlio Tito nell’‘80 dC, affascina e idealizza di sé l’Urbe e l’intero Occidente.
Oltre la realtà, la creatura dei Flavi è un essere di pietra che vive di vita propria, s’è fatta carne e sangue essa stessa. Giorgio Manganelli l’aveva capito, sostenendo che “il Colosseo non è solo un monumento, una macchinazione imponente di laterizi e massi: è una bestia. Si riproduce; la sua pietra poderosa ha una fulva, feroce, qualità carnale; è selvatica, sa di cosa uscita dalla foresta, ferma nello spazio spalancato, abbagliata e tacitamente furibonda”. E dire che lo scrittore milanese aveva innanzi a sé la Roma de noantri e della Dolcevita, non la foresta covo di serpi, briganti e genti di malaffare cui l’anfiteatro s’era ridotto nell’alto medioevo, non il luogo di ritrovo di maghi e alchimisti che tra i suoi anfratti evocavano demoni al chiaro di luna. Non la fortezza dei Frangipane buttata giù da un terremoto, come parte delle arcate, o le bottegucce che la Confraternita del Santissimo Salvatore – cui Bonifacio IX aveva ceduto parte dell’area – affittava, facendo calcara del restante pietrame. Chissà cosa n’avrebbe detto oggi Manganelli del monumento sopravvissuto a sé stesso, ridotto a bazar assai poco occidentale in attesa di divenire parco, diatribe tra comune e Mibact permettendo.
Di tutto ciò, di come quest’ammasso di pietre in rovina sia giunto a farsi icona, della sua storia bimillenaria, dà testimonianza l’esposizione curata da Rossella Rea, Serena Romano e Riccardo Santangeli Valenzani fino al 7 gennaio 2018 (info www.electa.it/mostre/colosseo-unicona). Dodici sezioni, con un centinaio di opere a portata di mano e di sguardo tra cui è facile perdere il filo: reperti, disegni, modelli ricostruttivi (imponente quello dell’architetto Carlo Lucangeli tra Sette e Ottocento, mai visto prima il plastico con cui Carlo Fontana, sul finire del Seicento, voleva trasformare il Colosseo in un santuario dedicato ai martiri cristiani). Eppoi foto e filmati, proiettati sulle volte dell’ambulacro, sequenze che hanno avuto a che fare con la magia delle sue arcate, pietre miliari quali Quo vadis e Vacanze romane, fino alla Grande bellezza e al Gladiatore.
A tutto ciò non poteva mancare l’omaggio degli artisti, dai vedutisti del Grand Tour ai contemporanei che dalle tele-ossario di Renato Guttuso giungono ai pneumatici in fiamme di Paolo Canevari. Un Colosseo che bruciando come una qualunque periferia romana giunge ad annientare l’icona di sé e la propria storia. Il Colosseo brucia e Roma, l’Occidente tutto, con esso.