Si “danno i numeri”: lavoro, occupazione, disoccupazione. Ma sono fake news, la ripresa non crea posti
La ripresa economica italiana, sbandierata in questi giorni, è un vero e proprio miracolo. Non può essere altrimenti visto che essa è presentata col seguente titolo: «Aumentano occupati e disoccupati». E qui la ragione umana si ferma per lasciar posto alla fede.
Ma veniamo ai dati i quali nascondono una verità un po’ diversa da quella narrata dai propagandisti del paradosso. Tutto ha inizio con la rilevazione del dato di luglio secondo il quale gli occupati sono aumentati dello 0,3% (59.000 in più) rispetto al mese precedente riportando la quota degli occupati a 23 milioni, quella del 2008, data d’inizio della crisi non ancora conclusa. Come fa ad aumentare l’occupazione in un periodo di crisi non ancora superato e con alle porte le prime avvisaglie dell’automazione robotica che promettono di sostituire centinaia di migliaia di posti di lavoro, secondo i dettami dell’industria 4.0?
Ebbene, i parametri statistici imposti dall’uniformazione europea dei dati, considerano occupata una persona che, nel breve arco in cui si effettua la rilevazione, abbia lavorato almeno un’ora. Se un lavoratore a tempo pieno, viene licenziato e al suo posto si assumono otto dipendenti per un’ora ciascuno, il tasso di occupazione risulta salito di sette punti. Questo è il primo paradosso che spiega in parte i dati paradossali. Essi sono la risultante dei tre parametri usati per individuare gli aggregati: occupati; disoccupati, tutti quelli senza lavoro, ma conteggiati in due categorie distinte: chi cerca un lavoro e gli inattivi, quelli che non lavorano e non lo stanno cercando. Si tratta a tutti gli effetti di disoccupati, i quali però non sono calcolati finché non si presentano a qualche agenzia di collocamento per dichiararsi in cerca di occupazione.
Ecco che, stabilito questo modo di contare, può accadere che nel mese di luglio ci siano contemporaneamente 59 mila occupati in più e 61mila disoccupati in più, perché gli inattivi diminuiscono (-115mila), cioè passano dalla categoria di chi non cerca lavoro a quella di chi lo cerca. La diminuzione degli inattivi si spiega con l’aumento della precarizzazione del lavoro e la diminuzione dei salari ha abbassato il livello di vita delle famiglie. Nelle famiglie impoverite, se ci sono persone che ancora vivono senza lavorare (studenti, disoccupati), aumenta la spinta perché si mettano sul mercato del lavoro.
Un altro aspetto da tener presente nella foresta numerica è che gli occupati in più non sono “nuovi posti di lavoro”: sono spesso persone over 50 che non possono andare in pensione per via della riforma Fornero. Infine i dati segnalano tra gli occupati l’aumento dei contratti a tempo determinato. Prevalgono quest’ultimi, non quelli a tutele crescenti del Jobs Act, perché le imprese aspettano i nuovi sgravi all’assunzione. L’Inps stesso rivela che nei primi mesi del 2017 sono stati attivati oltre 822.00 contratti a tempo indeterminato ma, parallelamente, le cessazioni di contratti stabili nello stesso periodo sono state 790.133, quindi il saldo attivo è di sole 32.460 unità.
Per di più, questo aumento riguarda soltanto i maschi, mentre l’occupazione femminile risulta addirittura in calo. In una situazione di difficoltà, e con servizi sociali in progressiva riduzione, le donne vengono trattenute dal lavoro di cura domestico: figli minori e anziani. Ad ingrossare l’esercito dei disoccupati ci sono le donne e gli over 50 quando le aziende li licenziano, sfruttando l’abolizione dell’art. 18, per sostituirli con manodopera più giovane e a salario inferiore. Fatto sta che complessivamente il tasso di disoccupazione torna a crescere toccando vetta 11,3% e la suo interno riprende a salire la disoccupazione giovanile (35,5%).
Robotizzazione e occupazione
La 43ma edizione dell’incontro a Villa d’Este di Cernobbio, che si è svolta ai primi di settembre, aveva per titolo “Lo scenario di oggi e di domani per le strategie competitive”. Quello di Cernobbio è un appuntamento ormai tradizionale e di lavoro per la borghesia. Vi partecipano abitualmente capi di Stato e di governo, massimi rappresentanti delle istituzioni internazionali, ministri, premi Nobel, imprenditori, manager, politici. Si riuniscono ogni anno e gli incontri sono promossi dalla The European House-Ambrosetti che ha come scopo quello di mettere le proprie competenze al servizio dell’imprenditorialità. Sul loro sito è possibile leggere quanto segue: «Nel nostro Paese quasi un giovane su due è senza occupazione. Si tratta di un grande spreco che rischia di mettere in grande difficoltà un’intera generazione in un’epoca in cui la tecnologia e la globalizzazione offrono, al contrario, opportunità senza precedenti che non sanno cogliere perché privi di spinta all’imprenditorialità. Senza imprenditori non c’è crescita. Senza crescita non c’è occupazione e senza occupazione non c’è futuro. L’imprenditorialità rappresenta dunque il più potente propulsore della crescita economica. Si può nascere imprenditori, ma (bontà loro!) lo si può anche diventare».
Il Club Ambrosetti ha pubblicato una documentatissima ricerca, Tecnologia e lavoro: governare il cambiamento, che prende spunto dalle analisi di due professori di Oxford, Carl Frey e Michael Osborne. Per quanto riguarda il mercato del lavoro italiano, l’impatto dovuto all’introduzione della robotica e dell’automazione non sarà cosa da poco. Nei prossimi 15 anni si prevede la perdita di circa tre milioni di posti di lavoro, nel migliore dei casi, oppure più di quattro milioni nello scenario più pessimista. I posti a più alto rischio sono nel settore manifatturiero e commerciale: rispettivamente 840 mila e 600 mila unità in meno. Nelle attività immobiliari si perderanno circa trecentomila addetti, agricoltura e pesca più di duecentomila e via di seguito. Secondo la ricerca, per compensare tale perdita occorrerebbe creare 42 mila posti di lavoro all’anno nei prossimi cinque nei settori avanzati, quelli ad alta tecnologia, scienza della vita, ricerca di base, poiché per ogni nuovo posto in un settore avanzato se ne creano altri 2,1 nell’indotto. Quindi quarantamila posti l’anno nei settori chiave sono tre milioni di occupati in 15 anni. Come fare? Chi lo fa? E a vantaggio di chi?
Secondo il rigido dettame liberista odierno è completamente da escludere la creazione di occupazione con le vecchie ricette keynesiane. Ciò non vuol dire che lo Stato non deve avere un ruolo, anzi! La strada è quella tracciata con l’ultima Legge di Stabilità: incentivi alle aziende per acquisti di nuovi macchinari, crediti d’imposta per le start up innovative e la ricerca, detassazione tassazione agevolata per le imprese, provvedimenti legislativi come il Jobs Act capaci di creare posti di lavoro sempre più flessibili, precari, mal retribuiti. Completamente esclusa l’eventualità di redistribuire il lavoro fra tutti i lavoratori dei vari settori, diminuendo le ore lavorative a parità di salario.
Nella storia di quelle che fu (come amano presentarlo i rottamatori) il movimento operaio si costruì, di fronte ad altre due se non tre rivoluzione tecniche-industriali, la richiesta della riduzione dell’orario di lavoro a parità di salario. Nei punti più alti della lotta di classe, come nel dimenticato autunno caldo italiano, i lavoratori ottennero non solo meno orario di lavoro, ma anche più salario. Storicamente l’obiettivo della riduzione dell’orario di lavoro si è dimostrato capace di unificare lavoratori e disoccupati. La riduzione dell’orario di lavoro la impone la scienza e la tecnica, ma dipende da chi e come si realizzerà. Dalla ricerca proposta dal Club Ambrosetti non può che venire la risposta prima ricordata. Tocca ai lavoratori, ai disoccupati, ai giovani precari, alle donne spesso messe al margine del mercato del lavoro, ai sindacati e ai partiti che vogliono ancora dirsi di sinistra, costruire la proposta della riduzione dell’orario di lavoro, approfittando della robotizzazione, non lasciandola in mano all’uso capitalistico delle macchine e della tecnologia. Una ripresa di questo obiettivo vorrebbe dire anche riconsiderare cosa, come e perché produrre, in una dimensione in cui il tutto sia finalizzato a rendere più umana la vita, più felice, più libera dal lavoro e più rispettosa dell’ambiente.