“La fine dell’Europa” di e per la regia di Rafael Spregelburd in prima nazionale al teatro Duse di Genova.
da Genova, Claudio Marradi
The end, das ende, stop, game over. Fine. Anzi, “la fine”. Quella ultima, definitiva, irrevocabile. Di cosa? Ma dell’Europa, naturalmente. Data per morta infinite volte, infinite volte risorta un po’ più ammaccata di prima. Ma questa sembra essere proprio la volta buona. E una risata la seppellirà. Perché se il tema non è certo nuovo – “Il tramonto dell’Occidente” di Oswald Spengler, per dire, spegne 100 candeline tra una manciata di settimane – inedito è lo svolgimento di “La fine dell’Europa” di e per la regia di Rafael Spregelburd in prima nazionale al teatro Duse di Genova.
Un dittico composto da due capitoli, da spezzare preferibilmente in due serate e che si articola in otto quadri nei quali il corpaccione appesantito di Europa – secondo il mito giunonica figlia del re fenicio di Tiro, rapita con uno stratagemma da Zeus – viene sottoposto ad autopsia: uno a uno i suoi organi vitali, ossia categorie antropologiche e cognitive consolidate come Arte, Nobiltà, Storia, vengono estratti e sezionati chirurgicamente in pubblico. Ma in maniera obliqua e paradossale, come se a operare fosse un allegro chirurgo.
A dispetto del ponderoso titolo, che potrebbe scoraggiare l’idea di un sabato sera a teatro, il 47enne drammaturgo argentino, che è uno dei più apprezzati autori teatrali della scena mondiale, mette infatti in scena una fiaba per adulti cinica e ironica, intelligente e feroce, che ha l’andamento eccessivo di un film di Pedro Almodóvar prima maniera. Come nella Fine della Nobiltà, che si traduce in una festa per le nozze della figlia dove la padrona di casa, una nobildonna che assomiglia a una Franca Valeri sotto acido, fraintende ogni avvenimento e ogni personaggio. Avvitandosi in una spirale di equivoci surreali fino alla rivelazione davanti agli ospiti sbigottiti, dell’orrenda violenza subita, assieme all’anziana madre ormai in preda a delirio erotico compulsivo, dal distinto consorte e pater familias. O come la Fine dei Confini, dove una coppia di professori di un prestigioso istituto d’arte sono impegnati in una strampalata discussione sui destini dell’arte contemporanea. Fino al momento in cui lei, approfittando di una momentanea assenza dell’altro, afferra una delle due candele che ornano il tavolo della sala docenti e se la infila furtiva sotto la gonna. La conversazione riprenderà poi da dove era stata interrotta come se niente fosse, incartandosi tra pettegolezzi tra colleghi, sospetti di molestie sessuali a un allievo e genitori arroganti che si affacciano a protestare per i brutti voti dati ai figli. Ma non è che l’antipasto, perché ce n’è anche per la Sanità, la Realtà, la Famiglia e la stessa Europa in “Altri pezzi d’Europa”.
In scena fino al 20 ottobre e coprodotto insieme alla Comédie de Caen, il Teatro di Liegi e la Comédie de Reims, lo spettacolo è recitato da un cast multietnico di bravissimi interpreti: Robin Causse, Julien Cheminade, Sol Espeche, Alexis Lameda-Waksmann, Adrien Melin, Valentine Gérard, Sophie Jaskulski, Emilie Maquest, Aude Ruyter, Deniz Özdoğan. E costituisce l’inaugurazione della stagione INSIEME 17/18 del Teatro Stabile di Genova e del Teatro dell’Archivolto, che vuole essere prima tappa di un più ambizioso progetto che, in un prossimo futuro, dovrebbe dare vita a un unico, eclettico organismo, capace di trasformare Genova e la Liguria in una capitale del teatro internazionale. E di stupire un pubblico che avrà la possibilità di scegliere in un cartellone forte di oltre 60 titoli.
E sul quale, almeno stasera, continua a incombere, silenzioso, un interrogativo: ma che fine avrà fatto quella candela?
Claudio Marradi