Disgraced di Ayad Akhtar, in scena al Carignano di Torino e prossimamente al Teatro India di Roma
da Genova, Claudio Marradi
Dunque, ci sono un ebreo e un’afroamericana, una wasp (white anglo-saxon protestant) e un pakistano, anche se fa finta di essere indiano… Ma, anche se assomiglia all’inizio della barzelletta del fantasma Formaggino, qui c’è poco da ridere. Perché Disgraced, andato in scena in prima nazionale al Teatro della Tosse di Genova, è una moderna tragedia greca, ambientata in una New York ricca, colta e liberale.
E dove si muovono sempre a loro agio, o quasi, curatori di gallerie d’arte contemporanea e professioniste affermate, artiste emergenti e avvocati di grido. Che si ritrovano per una cena tra amici nel centro del centro del Mondo, in un attico sospeso su quella Manhattan che galleggia come una cittadella luminosa di eletti, magri, sempre in forma e di successo, su una nazione di perdenti – losers – nel grande gioco della crisi globale, flagellata da un’epidemia di obesità da cibo spazzatura. L’unico che molti cittadini della prima potenza mondiale riescono a portare in tavola tutti i giorni.
Il testo di Ayad Akhtar, autore nato in America ma di origini pakistane, scritto tra il 2011 e il 2013, è vincitore del Pulitzer per il teatro (2013). E ruota intorno a temi di fortissima attualità come le tensioni fra fedi religiose e la difficile convivenza fra diverse identità etniche, esplorando ipocrisie e pregiudizi che, come è stato sottolineato dalla critica, “tuttora segretamente persistono anche nelle cerchie culturali più progressiste”.
Nella regia di Jacopo Gassmann – che ha deciso di affidare i ruoli dei protagonisti a Hossein Taheri, Francesco Villano, Lisa Galantini, Saba Anglana e Lorenzo De Moor – il protagonista Amir Kapoor è un avvocato finanziario, educato e cresciuto in America ma di origini pakistane, che sta velocemente scalando i gradini della carriera. Allontanandosi però dalle sue radici culturali per abbracciare la teologia del successo personale dell’american dream, come gli rimprovera il giovane nipote, affascinato invece da un’interpretazione in chiave identitaria della fede islamica. Quando Amir e sua moglie Emily, una pittrice newyorkese che sta portando avanti una ricerca su temi islamici, decidono di invitare a cena il noto curatore d’arte Isaac con sua moglie Jory, quella che comincia come una conversazione amichevole velocemente si trasforma in un acceso confronto su alcune delle più complesse questioni del dibattito politico e religioso contemporaneo. In un perfetto meccanismo drammaturgico, opinioni e posizioni si ribaltano imprevedibilmente fino all’acme di una rivelazione che innesca uno scoppio di violenza rabbiosa. Può succedere, quando la vita è una competizione quotidiana che finisce per assomigliare a una specie di gioco delle dodici sedie, dove un giocatore deve rimanere fregato per forza e dove il successo di qualcuno coincide sempre con la rovina di qualcun altro. E quando si scopre all’improvviso di essere l’ultimo, in ufficio come in camera da letto, a sapere come stanno veramente le cose.
Dopo l’anteprima milanese della scorsa estate è la prima volta che questo testo, nella coproduzione del Teatro della Tosse di Genova e del Teatro di Roma – Teatro Nazionale, viene rappresentato in Italia.
Le repliche andranno in scena, nella versione diretta da Martin Kusej, al Teatro Carignano di Torino fino 29 ottobre, mentre a Roma sarà sul palco del Teatro India dal 6 al 18 marzo 2018.