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#metoo, una rivoluzione senza Italia

#metoo: grazie ai social, è un fiume in piena. C’era un prima dove la lingua era avvilita da paura e vergogna, e ora c’è un dopo dove ciascuna non si sentirà mai sola. Ma non in Italia

di Monica Mazzitelli

illustrazione di Eliana Como
illustrazione di Eliana Como

Una sensazione da un punto di non ritorno. Come nella favola di H.C. Andersen − I nuovi abiti dell’imperatore – a un certo punto è bastato un grido: quello delle prime donne dello Hollywood Star System, che hanno avuto il coraggio di uscire allo scoperto e vuotare un sacco pieno di vergogna, rabbia, frustrazione, paura e incertezza. Da lì, pochi giorni dopo, il primo post con l’hashtag #metoo inizia a girare e in un paio di notti diventa una valanga. Si aggiornano le cifre dei conteggi delle migliaia e migliaia di donne occidentali che hanno trovato la forza della moltitudine per raccontare la propria storia. Che sia quella di una molestia su un autobus, o di uno stupro, tante mani si sono alzate e il fiume è diventato una piena, un avvenimento che è impossibile ignorare. Grazie ai social network le donne occidentali si sono finalmente incontrate, pur senza vedersi mai, e nell’onda sororale e calda del dire “anch’io” hanno formato una sorta di alleanza, con la forza che hanno le donne quando si stufano e non riescono più a far passare nulla.

C’era un prima dove la lingua era avvilita dalla paura, e dalla vergogna, e ora c’è un dopo dove ognuna di noi non si sentirà mai sola ma avrà saputo una volta per sempre che quello che le capita è comune, condiviso, incolpevole sempre e comunque, da contrastare sempre e comunque. E forse dal 99.9% di donne che fino a ora hanno taciuto, potremo averne 50% che gridano la loro rivoluzione d’ottobre, proprio a cent’anni da quella russa.

Ma l’Italia è inciampata nel suo incartapecorito schema patriarcale, nella “cultura dello stupro”. Non tutti hanno familiarità con questo concetto: non si tratta di una nozione che riguarda solo l’accettazione generale dello stupro come pratica sociale (comprendendo anche la colpevolizzazione della vittima), ma in generale tutta la prospettiva rispetto al comportamento femminile. Possiamo riassumere il concetto di cultura dello stupro come l’atto di stigmatizzare le donne vittime di stupro come meritevoli della violenza, come l’avessero/se la fossero cercata. Non solo per il loro vestiario o il modo in cui sono truccate, ma per tutto il loro comportamento nei confronti degli uomini: il tipo di vita che conducono, le loro abitudini sessuali, e anche l’(ab)uso di droga e/o alcolici.

In generale, per una donna che abbia il coraggio di denunciare il suo assalitore e portarlo in tribunale, è consigliabile avere alle spalle un’irreprensibile vita medioborghese, o altrimenti è molto probabile che verrà accusata di aver provocato il/i suo/i assalitore/i. E il verdetto (persino nelle nazioni migliori sotto il profilo della parità di genere come la Svezia) tenderà a prendere in considerazione il vestiario e il comportamento della vittima in modo da poter stabilire quanto lei avesse “provocato” il suo violentatore. E a prescindere da quanto la vittima fosse non consenziente ad avere un rapporto sessuale con quella specifica persona in quello specifico momento, le verrebbe comunque imputata almeno una parte di responsabilità per quell’atto.

In più, viene accettato senza il minimo problema che ci siano donne disposte a vendere il proprio corpo per ottenere un beneficio che di fatto nella maggior parte dei casi si traduce nell’ottenimento di un posto lavorativo. Come se questo fosse una “scelta”, un atto di volontà, e non come qualcosa che viene sempre e comunque dettato da una posizione di mancanza di potere. Senza la minima comprensione che quella compulsione a ottenere quel posto di lavoro non faccia parte di una cultura mercificante e che insiste sul corpo femminile come una possibile e plausibile merce di scambio, deprivato della sua giusta inviolabilità.

E non deve affatto stupire che ci siano donne che hanno atteggiamenti feroci nei confronti di altre donne, ché la cultura dello stupro è anche questo: condannare le altre rimarcare la propria purezza, per paura di essere considerate altrettanto prostituite, a qualsiasi livello si voglia usare questo termine. Del resto perché mai pretendere che le donne siano esenti da una mentalità patriarcale quando la vivono tutto il giorno esattamente quanto gli uomini? Come si fa a puntarle il dito contro?

Il sistema patriarcale è tale da migliaia di anni e la parziale uscita delle donne occidentali dalla loro domesticazione nell’ultimo secolo ha portato una “rivoluzione” in alcuni dei suoi meccanismi sociali, che ha lambito (seppur democratico-cristianamente) persino una nazione come l’Italia. Cosa è successo perché diventassimo uno dei pochi paesi dove il #metoo ha provocato tanta indignazione, irritazione, sufficienza, e tutti quei fenomeni descritti a proposito della “cultura dello stupro”? È successo perché questa salsa verde biliosa sobbolle da oltre venticinque anni nei gangli di un potere che è mediatico perché politico, e/o politico perché mediatico: si fa fatica a identificare la gallina e l’uovo. Di certo c’è che il nostro Satrapo di Stato, il Minotauro a cui bisogna sacrificar fanciulle, ha dimostrato di aver vinto. E il “Drive In” di essere il più gigantesco, pervasivo, infinito show televisivo di tutti i tempi.

www.monicamazzitelli.net

 

 

 

 

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