Gramsci in translation 3/ Ipotesi di traduzione di Gramsci “qui” ed “ora”, sulla rivoluzione e sul rapporto tra struttura e sovrastruttura
di Francesco Campolongo
Terzo appuntamento con i materiali del convegno Gramsci in translation promosso a Bruxelles, 18 e 19 ottobre, dal Gue-Ngl e dall’International Gramsci Society, con il coordinamento dell’europarlamentare italiana Eleonora Forenza. La pubblicazione degli interventi proseguirà su Popoff nei prossimi giorni.
Vorrei proporvi delle ipotesi di traduzione di Gramsci “qui” ed “ora”, partendo da alcune acquisizione teoriche sulla rivoluzione e sul rapporto tra struttura e sovrastruttura. Un qui ed ora inteso come fase storica del capitalismo finanziario, alle soglie di una nuova rivoluzione industriale basata sull’automazione avanzata e l’uso sempre più avanzato dell’ia, con la precarietà come elemento costitutivo e minimo comun denominatore della condizione materiale generalizzata, nel contesto istituzionale caratterizzato dalla governance dell’Unione Europea che rappresenta l’istituzionalizzazione compiuta della “Postdemocrazia” come costruzione istituzionale e discorsiva che espelle dalla democrazia formale la sovranità popolare e chiude alla permeabilità popolora del quadro istituzionale.
Gramsci era un nemico dei massimalisti che neutralizzavano la politica con il determinismo economico, ma anche dei volontaristi che fuori da qualsiasi analisi approfondita del contesto e della totalità sociale (intesa come relazione dialettica tra struttura e sovrastruttura) pensavano che la rivoluzione fosse una semplice questione di volontà, fosse una atto e non un invece un “processo”. Gramsci ci mostra come la rivoluzione nell’occidente non possa che essere una “guerra di posizione”, che contemporaneamente trasforma il sistema e costruisce la soggettività sociale come blocco storico protagonista di una nuova volontà collettiva attraverso la contesa del senso comune. Il blocco storico non è un’astrazione identitaria, un’invenzione qualsiasi ma un’alleanza tra classi che ambisce ad egemonizzare e quindi universalizzare la propria visione del mondo come risultato di un processo di crescita della consapevolezza politica delle classi stesse. Non si può semplificare Gramsci ma bisogna sempre analizzare il suo lascito teorico come tensione dialettica tra struttura e sovrastruttra, tra organizzazione e spontaneità, tra partito e movimenti, tra modo di produzione e ideologia. Qualsiasi analisi che non tenga conto di questa produttiva complessità penso sia incapace di conoscere a fondo e quindi trasformare il mondo.
Io temo che nell’epoca dell’egemonia poststruttualista e dell’immediatismo noi riduciamo questa complessità e il processo di costruzione e affermazione dell’egemonia, come chiave per una trasformazione radicale, spesso diventa una semplice tecnica della conquista del consenso.
Ma per poter condurre una guerra di posizione dobbiamo preventivamente provare ad immaginare l’orizzonte strategico e l’idea “concreta” di rivoluzione, che non può che svilupparesi sempre all’interno del confine tra “il vecchio che muore” e il “nuovo che fatica a nascere”.
Dobbiamo aiutare il nuovo a nascere tenendo conto che questo è già presente in potenza nelle pieghe del presente. Per evitare di rimanere prigionieri della “piccola politica” (politica del giorno per giorno, politica parlamentare, di corridoio, d’intrigo ovvero “delle le quistioni parziali e quotidiane che si pongono nell’interno di una struttura già stabilita per le lotte di preminenza tra le diverse frazioni di una stessa classe politica. » (QC, 1562-1563) noi dobbiamo aspirare alla grande politica cioè « che “ comprende le quistioni connesse con la fondazione di nuovi Stati, con la lotta per la distruzione, la difesa, la conservazione di determinate strutture organiche economico-sociali.”
Penso dunque che noi dobbiamo conoscere lo spazio in cui agiamo e iniziare a riflettere sulla forma concreta che possono assumere i nuovi rapporti di produzione, la nuova democrazia e il nuovo principe che dobbiamo costruire. Per far si che la guerra di posizione, con le sue manovre tattiche e la sue accelerazioni o le sue ritirate, abbia un orizzonte flessibile ma chiaro.
Per aprire un processo rivoluzionario qui ed ora dobbiamo partire dall’analisi delle nostra totalità sociale.
Vorrei provare a soffermarmi su due nodi che a mio parere rappresentano lo spazio di una proposta di rottura, con un orizzonta strategico da costruire e un articolazione tattica da praticare: lavoro e democrazia.
Ieri si è parlato molto dell’egemonia neoliberista citando quella costruita dalla Thatcher. Io penso che sia rilevante sottolineare che le basi materiali di quell’egemonia nacquero da un’incapacità dei partito laburista di affrontare il tema della trasformazione dei rapporti di produzione posta dallo sviluppo delle forze di produzione in Gb a fine anni 70. Il governo laburista che precedette l’avvento della Thatcher, in una sua prima fase, adottò politiche keynesiane di finanziamento della spesa pubblica ma sorprendentemente, rispetto all’efficacia del moltiplicatore keynesiano nei trenta gloriosi, queste risultarono inefficaci per rilanciare crescita e occupazione. Il livello di consumi e di sviluppo delle forze produttive dell’Inghilterra di fine anni 70 rendeva non più efficaci le politiche del trentennio glorioso perché era mutato il contesto strutturale e quello stesso contesto esigeva una trasformazione dei rapporti di produzione, non più la ripetizione astorica di alcune acquisizioni teoriche acquisite in fasi differenti. E’ anche per questo che oggi una proposta sinceramente socialdemocratica (nulla a che vedere con i social-liberisti del Partito Socialisto Europeo) oggi sarebbe inefficace.
Oggi noi dobbiamo capire l’orizzonte trasformativo delle attuali forze produttive ovvero come concretamente delineare un processo di uscita dal lavoro mercificato e salariato: un socialismo 2.0. La rivoluzione industriale alle porte potrebbe essere uno strumento straordinario di rafforzamento del potere delle oligarchie attuali, con l’espulsione strutturale di milioni di lavoratori dal ciclo produttivo, che aprirà delle enormi contraddizioni. Noi dobbiamo riflettere fin da ora su come ribaltare quel modello, su come lo sviluppo tecnologico e della automazione spinta possa aprire ad un orizzonte concreto ed efficace di trasformazione dei rapporti di produzione in una direzione socialista per una trasformazione radicale del lavoro, per una riduzione radicale dell’orario di lavoro (incompatibile con gli attuali rapporti di produzione) e una liberazione di tempi e spazi per la socialità e la politica, come garantire un reddito incondizionato che nel contesto delle trasformazioni prima citate cambia la sua valenza (non più di semplice redistribuzione di reddito). Un riflessione fondamentale (appena delineata) perché la costruzione di un chiaro orizzonte strategico ci permette una posizione autonoma, capace di articolarsi tatticamente in obiettivi di fase concreti e realizzabili e in base a questi definire alleanze e narrazioni. Ma ci permette anche di mettere a tema la trasformazione reale cosi da non rimanere prigionieri di una sterile lotta per il consenso, senza poi sapere che farcene del consenso stesso. Rischiamo insomma di conquistare qualche governo senza sapere come utilizzarlo in chiave di trasformazione anticapitalista (rimanendo intrappolati nella “piccola politica”). Penso inoltre che all’orizzonte chiaro di una trasformazione produttiva in senso solidale, socialista ed egualitario, legata alle trasformazioni delle forze produttive e tecnologiche, possa essere facilmente “traducibile” in discorsi popolari capaci di costruire una connessione sentimentale con i subalterni.
Nell’Europa della disoccupazione e della precarietà pensiamo che una proposta politica incentrata sul lavoro e sulla sua trasformazione (non precario, giustamente retribuito, socialmente utile, non più usurante) non abbia potenzialità egemoniche?
Pensiamo che in un società in cui già esiste un reddito incondizionato per banche e multinazionali sostenere la necessità di un reddito incondizionato per il popolo non sia capace di costruire una connessione con la rabbia sociale di milioni di precari e disoccupati?
Il popolo del reddito incondizionato è immediatamente un popolo sociale, un “popolo classe”, uno spazio discorsivo in cui costruire con pratiche conflittuali e narrazioni adeguate un “blocco storico”. Per fare questo però dobbiamo provare ad elaborare un orizzonte concreto (se pur flessibile) delle trasformazioni del sistema perché una cosa è la lotta per il consenso e un altra (forse molto più complessa) è quella per la trasformazione anticapitalista (come ci hanno insegnato Gramsci e Lenin).
Nell’Unione Europea della Postdemocrazia e in una società gerarchizzata, attraversata da dispositivi disciplinanti di differenziazione e sfruttamento dobbiamo aprire una riflessione sul nostro modello di “democrazia radicale” e mai come oggi ci torna utile l’idea delle casematte gramsciane, quei fortini di senso da conquistare perché il potere non risiede solo nell’apparato coercitivo.
Anche qui dobbiamo darci una prospettiva strategica. Dobbiamo iniziare a ragionare sulle forme sociali e istituzionali della trasformazione che permettano concretamente l’esercizio di una “sovranità popolare” dei subalterni, intesa come l’orizzonte strategico di un società di eguali e libera dai dispositivi ideologici di sfruttamento e gerarchizzanti. Una società de-globalizzata (nell’accezione egemone di globalizzazione neoliberista), de-mercificata, de-patriarcalizzata e Democratizzata (citando qui Monereo), che permetta il governo della maggioranza sociale. Per noi democrazia non può che essere massima “distribuzione del potere” che chiaramente non assume solo una veste istituzionale.
Dunque capire come costruire le istituzioni del contropotere popolare qui ed ora, capaci di mutualismo e conflitto per ricostruire la forza dei subalterni ma anche di prefigurare modelli di relazione partecipativi e solidali che ci permettano di ripensare, ibridare e trasformare le forme giuridiche e istituzioni “ufficiali”. Costruire forme sociali di contropotere per ricostruire una costituzione sostanziale democratica e popolare dando nuova linfa alle costituzioni antifasciste svuotate dalla furia neoliberista ripensando ai nostri assetti costituzionali al fine “Democratizzare la democrazia”.
Gran parte dei movimenti oggi sviluppano le proprie rivendicazioni sul tema della necessità e della possibilità concreta di decidere. Un strategia chiara e articolata di democratizzazione ha oggi potenzialità egemoniche e trasformative.
Ovviamente non possiamo eludere il tema dell’Unione Europea che dobbiamo affrontare da un punto di vista autonomo e di classe. Noi dobbiamo aprire uno scontro con l’Unione Europea come gabbia governamentale che neutralizza la sovranità popolare e impedisce un reddito, un lavoro, una sanità pubblica e ed efficiente, l’uscita dalla precarietà e dalla disoccupazione alla maggioranza sociale.
E su queste basi che noi riveliamo l’irriformabilità dell’Ue e la necessità della rottura, non perché ci interessi un ritorno alla “sovranità nazionale” ma perché l’Ue rappresenta un ostacolo oggettivo alla sovranità del nostro popolo, alla possibilità che questo possa decidere e che possa essere libero. Solo nel conflitto che riusciamo a generare all’interno di questo scontro (tra sovranità popolare e Unione Europea) da agire istituzionalmente e socialmente, all’interno di questa frattura sociale e non nazionale/identitaria il popolo può assumere le vesti di un blocco storico (di un popolo classe) e non di un popolo etnico.
Ed è chiaro che noi dobbiamo essere disposti ad usare qualsiasi spazio istituzionale in funzione della ricostruzione della sovranità popolare: dal livello municipale a quello nazionale. L’uso strumentale della sovranità nazionale e delle sue istituzioni (il piano B) non è nazionalismo ma strategia di classe, per noi la dimensione nazionale della sovranità è un mezzo e non un fine (a differenza di chi, anche a sinistra, ne fa un fine finendo per teorizzare la regolazione della libertà dei lavoratori appoggiando vincoli ai flussi migratori). Mai come oggi dobbiamo mettere a tema gli strumenti della resistenza e della rottura che un governo nazionale di sinistra (perché la nostra strutturazione è principalmente a livello nazionale) può mettere in campo contro gli strumenti coercitivi della Ue (stretta creditizia, speculazione finanziari, ecc..) perché se vogliamo costruire realmente un’altra Europa (che non dobbiamo identificare con lo spazio istituzionale e politico dell’attuale Unione Economica e Monetaria) dobbiamo avere chiari gli strumenti istituzionali e sociali che potremo usare sapendo (come la Grecia ci dimostra) che la Ue non ascolta i buoni propositi democratici ma la dura legge dei rapporti di forza. Proprio perché siamo sinceri internazionalisti siamo contro una struttura istituzionale come quella europea che non unisce ma divide, aumentando le diseguaglianze tra classi e nazioni rendendo cosi impossibile una pacifica convinvenza.
Se abbiamo un orizzonte strategico chiaro della trasformazione non dobbiamo avere paura di attraversare passaggi pieni di contraddizioni, non dobbiamo avere paura di tattiche audaci e di nuove “rivoluzioni contro il capitale”. Ma senza un orizzonte strategico tutto questo rischia di essere opportunismo o mero avventurismo.
Voglio chiudere sulla questione populista interloquendo con chi ieri mi ha preceduto. Oggi il populismo inteso come ideologia debole e basato su un nucleo di pochi significanti intimamente legati alla dimensione democratica (popolo, sovranità popolare) o all’attuale divisione sociale (divisone radicale di una società in una maggioranza che subisce un’ingiustizia da parte di una minoranza) corrisponde, in maniera sicuramente semplificata ma proprio per questo popolare, alla nostra descrizione della società.
Preso atto che siamo consapevoli che per noi la questione della costruzione del popolo non può essere un semplice artificio retorico (come non lo era nemmeno il Laclau) e che la costruzione del soggetto sociale della trasformazione è un processo più lungo, che si alimenta e vive nel conflitto sociale nella “guerra di posizione”, l’uso strumentale di un registro “populista” ci permette di avere un discorso “popolare” che apre uno spazio per il nostro processo di trasformazione.
Non è forse vero che esiste un’elites capitalista che ci ha espropriato della possibilità di decidere? Non è forse vero che c’è un 1% della società mondiale che si arricchisce e domina il restante 99%? Non è vero che noi vogliamo democratizzare la società per distribuire il potere e ricostruire la sovranità popolare?
Si imputa al populismo la presenza di un leader forte, di una connessione diretta con i rappresentanti saltando la mediazione delle organizzazioni. Io non penso che i processi di personalizzazione della politica e leaderizzazione siano imputabili al dispositivo populista (che sicuramente può attraversare queste contraddizioni e avvalersene) ma alla forma gerarchizzata delle relazioni sociali che va dalle relazioni di genere a quelle di lavoro e che trova nuova linfa nell’organizzazione delle relazioni sociali che si sviluppano sulle grandi piattaforme del web 2.0. Noi imputiamo al Populismo dei fattori la cui origini e la ratio sono da ricercare in elementi molto più complessi tant’è che anche proposte non populiste siano provviste di leadership forti ( vedi Angela Merkel). Ridimensionando la valenza del populismo a semplice registro retorico e consapevoli del profonda complessità sociale che esige la costruzione di un blocco storico penso che non usare tatticamente il registro populista sia un’enorme regalo a chi oggi lo fa ridare nuova linfa ai popoli etnici.