Quasi un ritorno al passato con il Nobel al nippoinglese Ishiguro. Che svela l’abisso su cui balliamo ma senza vie di scampo
di Maurizio Zuccari
Non se l’aspettava, né l’aspettavano i blog del totonobel o i bookmaker inglesi che manco l’avevano in lista. Eppure Kazuo Ishiguro, Ish per gli amici, un bel regalo per il 63esimo compleanno l’ha avuto, con il Nobel per la letteratura a dispetto di sé e degli ignavi. E, da buon giapponese, sulla panchetta stile Ikea nel retrogiardino del villino londinese ha puntualizzato che sarebbe stato meglio saperlo in privato, non dalla Bbc. Dopo i cedimenti al politicamente corretto e le cadute sui menestrelli pop delle ultime edizioni, con Ishiguro l’Accademia di Svezia torna al passato, alla parola se non alla letteratura.
Non sono più i tempi d’Anatole France, che il Nobel se lo guadagnò ottantenne nel 1921, alla vigilia della morte, con opere messe all’indice dalla Chiesa e che oggi si direbbero antisemite. Il dimenticato autore della Rivolta degli angeli, omaggiato in vita ma obliato post mortem, l’ottenne per “grazia, nobiltà di stile e temperamento gallico”. Né sono i tempi di José Saramago che l’ebbe quasi vent’anni fa, pur’esso in avanzata età. Pure lui coi suoi problemi con la Chiesa e gli ebrei, ma le sue parabole immaginifiche e ironiche, anzi tragironiche, ne han fatto “il maestro, uno degli ultimi titani di un genere letterario in via di estinzione”, per dirla come Harold Bloom che lo reputava, a ragione, un genio. Con buona pace all’anima sua (loro) quelli erano tempi in cui la letteratura ancora pretendeva disvelare il mondo, indicare una via d’uscita dalle sue secche.
Ishiguro ha vinto scoperchiando l’abisso su cui balliamo – come sottolineato dalla giuria di Stoccolma – messo su carta la disconessione interiore e col mondo dietro l’usuale trantran. La sua (nostra) illogicità, senza scampo né ritorno. Senza clamori né pretese. E non c’è niente di pretenzioso in lui, tranquillo figlio del Sol levante di mezza età emigrato a sei anni da Nagasaki, città della bomba, e maritato con una scozzese. Un cittadino del mondo antieroico quanto basta per farne, se non un maestro, un testimone del nostro tempo. Che indaghi l’oblio del sé in Quel che resta del giorno – il suo libro più noto, magistralmente interpretato sul grande schermo da Anthony Hopkins nel ’93 – o della società nel monumentale Gli inconsolabili; che scorra i nodi della memoria e della storia in un passato di nebbie o in un futuro d’orrori, come nel futuribile mondo dei cloni di Non lasciarmi, Ish non offre nessuna ricetta, non c’è via di scampo.
Vedi il Gigante sepolto, l’ultima opera del 2015, saga alla Tolkien dove soavi dialoghi da cerimonia del tè, britannica o nipponica poco importa, mal si conciliano coi draghi e gli orchi che popolano la Britannia del V secolo, agli albori del Cristianesimo. Ecco, forse la memoria è una bestia mostruosa che non è bene andare a stuzzicare o risvegliare, pena la fine d’ogni illusione, residuale umanità. E il naufragar c’è dolce in questo Nobel.