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Il Daspo ai poveri di Bologna l’ha inventato Veltroni

Daspo urbano e tolleranza zero. Una pacata istigazione all’odio di classe. Rudolph Giuliani in Italia sarebbe stato a “sinistra”

di Federico Bonadonna

Dieci senza dimora allontanati con un daspo urbano, il primo, dal centro di Bologna. Reato? Dormivano sotto il portico di viale Masini, a due passi dalla stazione ferroviaria, con le loro coperte e materassi. I dieci sanzionati che dovranno allontanarsi dalla città, “impedivano di fatto la fruizione del passaggio pedonale nelle vicinanze di infrastrutture ferroviarie”, dice in una nota il Comune. Al termine della contestazione dei verbali, tutte le persone si sono allontanate consentendo agli operatori di Hera la pulizia dell’area.

Siamo portati a pensare che la Tolleranza Zero sia un dispositivo inventato dalla destra recentemente adottato dalla sinistra. Non è così. Mentre il sindaco di New York Rudolph Giuliani si proponeva di “ripulire” la città nella metà degli anni’90, si affermava anche la Terza Via di Clinton e Blair. In quegli anni però si affermano anche le politiche law and order, provvedimenti anti-crimine che si rincorsero vicendevolmente nell’innalzamento delle pene o nell’aspirazione della loro applicazione ‘automatica’. Il cammino si arrestò all’ultima riforma in ordine di tempo, quella delle three strikes. Se fino a quel momento la riforma della giustizia, l’ultima quella del 1984, poggiava su un solido dibattito scientifico, sul criterio e sulla razionalità, le riforme negli anni Novanta e Duemila affondarono nell’irrazionale e nell’assoluta assenza di riflessioni dottrinali.

Esiste un legame forte tra la politica criminale statunitense e quella di altri stati, compresa l’Italia. Gli Stati Uniti rappresentano un laboratorio giuridico di notevole interesse al punto da permettere di prevedere le tendenze evolutive future della politica criminale globale (M. Garland, La cultura del controllo, 2004). Durante i primi anni Novanta echeggia negli Stati Uniti lo slogan “Tre volte e sei fuori!”, utilizzato per la prima volta nel 1993 dall’allora Presidente degli Stati Uniti Bill Clinton durante il discorso annuale al Congresso. Ogni americano conosce la regola tre volte e sei eliminato: è un principio del gioco nazionale del baseball. La regola è diventata anche un principio penale, tanto che volgarmente calata nel mondo criminale come titolo della misura anticrimine, si può tradurre con un monito chiaro: «tre condanne per gravi reati commessi e scoperti e tu, (criminale) ti becchi l’ergastolo».

La tolleranza zero dunque è un dispositivo securitario basato sul generico inasprimento delle sanzioni, dei divieti e delle espulsioni dei devianti. Naturalmente “cavalcare le paure” sociali è un modo per alimentare l’insicurezza percepita. Nel suo Parola d’ordine: tolleranza zero. La trasformazione dello Stato penale nella società neoliberale, Löic Wacquant analizza l’estendersi dello “stato penale” in parallelo al declino dello “stato assistenziale”, interpretando la tolleranza zero come la risposta autoritaria alla crescente pauperizzazione provocata dal ridursi dell’intervento pubblico nella sfera economica. Secondo Wacquant, gli stati hanno rinunciato all’integrazione delle classi subalterne perché troppo costosa, preferendo la criminalizzazione e la punizione dura dei comportamenti “devianti”. Wacquant ripercorre la nascita e la diffusione della strategia della tolleranza zero, supportata da think thank neoconservatori come American Enterpise Institute, Cato Institute, Heritage Foundation, Manhattan Institute. Richiamandosi a Foucault, Wacquant considera le norme penali come norme di controllo sociale di stampo classista dei ceti marginali. Il testo smentisce, citando numerose ricerche, tutte le tesi dei sostenitori della “tolleranza zero” perché non è mai stato rilevato alcun nesso tra politiche repressive e diminuzione del tasso di criminalità. La “tolleranza zero” si risolverebbe perciò non in un rimedio al problema della criminalità, ma in una precisa politica di repressione dei conflitti sociali e di legittimazione del potere coercitivo.

Fondamento teorico della tolleranza zero è la broken windows theory, una teoria criminologica degli anni Ottanta elaborata sulla scia del pensiero funzionalista di Robert Merton. I sociologi Willson e Kelling supposero che i cittadini, vedendo una finestra rotta di un palazzo per lungo tempo, si abituassero all’idea di degrado e di mancanza di regole che stimola le attività criminali. Negli anni in cui si elabora la teoria delle finestre rotte che troverà applicazione in tante città statunitensi con l’espulsione di migliaia di homeless dai centri urbani, a Roma don Luigi Di Liegro, lo scomodo presidente della Caritas Diocesana, realizza a Villa Glori, nel cuore della Roma-bene, i Parioli, un centro di accoglienza per persone affette da Hiv.

A quei tempi Parioli non era ancora diventato l’ultimo baluardo della sinistra ma era il quartiere dei ricchi, fulcro del movimento neofascista in doppio petto Dio, Patria, Famiglia. E proprio mentre il Cardinal Siri tuonava che l’aids era un castigo di Dio e medici e professionisti della zona strillavano che il contagio si diffondeva nell’aria, don Luigi realizzava un centro, il primo della città, per malati di Aids. Luigi fu minacciato di morte, una costante nella sua vita, ma quando sembrava che la partita di Villa Glori fosse perduta, papa Woytila si schierò con lui e a Villa Glori è ancora oggi funzionante. Di Liegro aprì anche un centro di ascolto in via delle Zoccolette, la mensa della Caritas a Colle Oppio, il dormitorio e il poliambulatorio in via Marsala, cioè nel cuore della Capitale e non solo nelle periferie abbandonate, a testimonianza che il centro storico non è una vetrina e che la città è di tutti, come dimostra anche l’esperienza della comunità di Sant’Egidio a Trastevere.

A partire dalla metà degli anni Novanta e soprattutto negli anni Duemila, con l’affermazione del centro-sinistra, il modello della Tolleranza Zero viene applicato anche in Italia e in particolare a Roma.

Nella fase 2001-2004 il modello Roma si può riassumere nello slogan veltroniano “Nessuno resti solo” che portò a triplicare i posti di pronta accoglienza per senza tetto, migranti e donne con bambini. Allo stesso tempo però, il sindaco impose una serie di sgomberi a tappeto di campi spontanei, occupazioni e baraccopoli. Nessuno sa con precisione quanti siano stati. Un manifesto del centrosinistra per le elezioni comunali 2006 rivendicava che a Roma “in 5 anni sono state spostate 8.000 persone dagli insediamenti abusivi”.

Manifesto del centrosinistra per le elezioni comunali 2006

 

Dunque una media di 1.600 persone all’anno, oltre 113 al mese, quasi 5 persone al giorno. Secondo l’Associazione 21 Luglio uno sgombero costa 1.250 euro a persona, quindi, nel primo quinquennio di Veltroni sono stati spesi oltre dieci milioni di euro per “spostare” le persone che sono andate in altre occupazioni o in nuove strutture. Il coordinatore degli sgomberi era Luca Odevaine, il vicecapo di gabinetto del sindaco, mentre il principale gestore dei nuovi servizi era Salvatore Buzzi con le sue cooperative, entrambi condannati in primo grado nel processo ex Mafia Capitale. Gli “spostati” vagano da vent’anni, e ancora oggi, da un interstizio della metropoli a un altro, come dimostra lo sgombero di Piazza Indipendenza di agosto 2017 dove erano presenti nuclei famigliari residenti in città da lungo tempo.

Durante il suo secondo mandato, Veltroni promosse il “Patto per Roma Sicura” che, nelle linee guida, prevedeva la costruzione di almeno quattro “villaggi della solidarietà” in grado di accogliere circa 1.000 persone da collocare «fuori dal GRA» (cfr. Giovanna Vitale, Roma, campi-rom individuate le aree, La Repubblica 20 maggio 2007) e la presenza della polizia romena all’interno dei campi romani, sottoscritto del prefetto di Roma Serra subito dopo candidato (ed eletto) nel 2008 nelle liste del PD, dal presidente della Regione Lazio Marrazzo e dal presidente della provincia di Roma Gasbarra, alla presenza del ministro dell’interno Amato.

Ma il volto più feroce del Modello Roma emerge con chiarezza la sera del 30 ottobre 2007 nei pressi della stazione ferroviaria di Tor di Quinto. Piove, la strada è allagata e la zona è scarsamente illuminata quando una donna di 47 anni viene rapita, seviziata e uccisa. L’assassino è uno straniero che vive in una piccola baraccopoli lì vicino. Quel giorno la sinistra è al governo della Capitale ininterrottamente da 14 anni e Rifondazione Comunista ha la delega alle Periferie da sette anni.

La gestione del delitto Reggiani, il grande rimosso, può essere identificato come il momento in cui la sinistra cambia il segno politico solidarista della sua storia che l’aveva fino ad allora contraddistinta. Ma quella è anche la scintilla – in concomitanza con un sondaggio Ipsos che rivela il crollo del consenso verso il sindaco (cfr. C. Cerasa, La presa di Roma, Rizzoli, 2009, pag. 19.) – per scatenare una crisi politica che terminerà con la fine di Prodi .

Prima di far cadere il governo però, Veltroni ottiene dal presidente del Consiglio dei ministri iniziative straordinarie e d’urgenza sul piano legislativo in materia di sicurezza, ricordando in una conferenza stampa che Roma era la città più sicura del mondo prima dell’ingresso della Romania nell’Ue. Il presidente della Repubblica Napolitano, quello del consiglio Prodi e i ministri della sinistra radicale, Ferrero e Pecoraro Scanio votarono il decreto legge presentato dal ministro degli interni Amato e dal vice ministro Marco Minniti. «I prefetti devono poter espellere i cittadini comunitari che hanno commesso reati contro cose e persone […] L’Italia deve porre la questione riguardo ai flussi migratori dalla Romania in sede europea. L’Europa deve chiamare in causa le autorità romene […] In Europa bisogna starci a certe regole: non si può aprire i boccaporti e mandare migliaia di persone da un Paese all’altro», dichiarò tra l’altro Veltroni in una conferenza stampa infuocata. Che poi precisò di non fare generalizzazioni verso un singolo Paese, ricordando tuttavia che «il 75% di arresti effettuati hanno riguardato i romeni».

Tra i pochi critici del provvedimento e della violenta virata del sindaco ci fu Marco Pannella che commentò lapidario: «Il dolce Veltroni ha ispirato una cosa da non credere, un romeno ammazza una persona e il nostro governo si rivolge all’Unione Europea e al governo romeno come se questo fosse il rappresentante dell’aggressore».

Fino al momento dell’omicidio – per altro in linea con la tendenza delittuosa molto bassa della Capitale – Veltroni aveva sostenuto un atteggiamento anche troppo tollerante rispetto le situazioni di degrado sociale. Tanto che il delitto avvenne all’uscita della stazione di Tor di Quinto, in una strada dissestata e mal illuminata seppure molto frequentata, nei cui pressi c’era una baraccopoli. Eppure la gestione del territorio è un elemento essenziale per le politiche sociali e agli amministratori pubblici si chiede di investire il denaro pubblico per curare la città, non per alimentare la paura, come invece fece il leder del neonato PD che, promuovendo il decreto-sicurezza si candidò alle elezioni anticipate, spostando l’attenzione dal piano del progetto della città a quello dell’emergenza. Anche se pochi ricordano, in quei giorni Roma fu insanguinata da atti criminali di italiani contro rumeni, ma i leader della sinistra, anziché fare una doverosa autocritica, almeno per la parte che li riguardava, si limitarono ad accusare la destra di fare speculazione politica.

Il primo daspo di Bologna è solo l’ultimo anello di una catena lunghissima. Quasi 20 anni.

 

 

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