Alessandro Kokocinski ci ha lasciato. In ricordo dell’amico e maestro, oltre la memoria
Non è facile avere a che fare con la morte, soprattutto se è quella di un amico. Alessandro Kokocinski se n’è andato, un freddo mattino di dicembre, digrignando i denti alla commare secca che è venuta a prenderselo, fregandosene di quel che gli restava da fare, e alla vita a cui aveva ancora molto da dare. Koko ci ha lasciato, e da atei speriamo che, ovunque sia, non soffra più come quest’ultimo suo tempo in vita, qui. È l’unico pensiero che può lenire il dolore di questi giorni: il cessare d’una sofferenza per sé e i suoi cari dolorosa oltre il vivibile. Non è facile aggirarsi nelle stanze della sua casa di Tuscania, vuote della sua presenza e piene degli oggetti amati e raccolti in vita, accettare la visione dell’involucro che ci racchiude, alla fine di tutto, prima di perdersi in un fildifumo.
Ci ha lasciato un amico, e un maestro, oltre che un artista. Tanto più grande perché non uso a risparmiarsi, generoso nella vita come nell’arte. S’era mangiato la vita a morsi, Koko, durante un’esistenza non lunga – era nato nella terra di Leopardi nel ‘48, da genitori che stavano leccandosi le ferite del tempo di guerra e mai si sarebbero rimarginate del tutto – ma ricca più d’altre cento. L’esistenza straordinaria di un artista, quasi un romanzo, come ha scritto Tiziana Gazzini in una biografia che ha fatto appena in tempo a coglierlo in vita. E, da un po’, la vita aveva cominciato a mordere lui. L’appuntamento con la comare nera, con cui Koko ha iniziato da anni una partita a scacchi dall’esito scontato, è infine arrivato. Non possiamo che chinare il capo al fato. Anche se tanto aveva da dire – da dare – l’uomo e l’artista (il maestro, insisto nel dire, come lo chiamava anche la sua compagna, Giovanna).
Non era facile a volte stargli accanto, ma un maestro si misura anche da questo: lascia qualcosa di sé anche quando si dà solo in parte, o si ritrae, dal rapporto con gli altri. Indipendentemente dal tempo della conoscenza chi gli è stato vicino, poco o tanto che l’abbia frequentato, non può che serbare un ricordo a somma positiva di lui. Ma l’esercizio d’una memoria sterile sarebbe un po’ tradire il ricordo d’un amico, le sue azioni e in fondo la sua arte. Koko deve vivere non solo nella memoria, ma nel parco tematico, in una rassegna d’arte circense o multimaterica, insomma in qualunque attività la Fondazione che porta il suo nome voglia e possa proseguirne l’impegno, insieme a ci gli ha voluto bene. Nello spirito gioioso e anarchico, libero da ogni costrizione anche interiore ma sorretto da una ferrea etica morale e da una perizia artistica – da lui stesso definita artigianale – che lo contraddistingueva. Solo così le sue ceneri, quando verranno sepolte sotto un albero a Labro, il paesino dell’alta Sabina che tanto amava, potranno continuare a concimare l’esistenza di molti, bruciare in vite degne d’essere vissute, come la sua.
Qui l’intervista con Koko nello studio di Tuscania, nel 2011
(riprese Manuela Giusto, montaggio Camilla Mozzetti)