Parla uno dei primi cinque soldati che, per primi, entrarono ad Auschwitz. #GiornodellaMemoria
di Ritanna Armeni
Ivan Martynushkin è uno dei primi cinque soldati sovietici entrati ad Auschwitz. Ho parlato a lungo con lui di quel giorno di oltre settantrè anni fa e ho registrato la sua testimonianza. Mi ha molto emozionato. Credo che ai miei amici possa interessare.
“Ad un certo punto, non so come, senza neppure dircelo, abbiamo deciso di entrare. Non sapevamo chi fossero quelle ombre, ma loro ci avevano riconosciuto e ci salutavano. Agitavano le mani con lentezza, quasi timidamente. Magari sono prigionieri russi, ho pensato.
Ci siamo avvicinati, li abbiamo guardati, erano magri, molto magri, degli scheletri che si muovevano, solo gli occhi parevano avere un barlume di vita. Si erano messi addosso di tutto: coperte, vestiti stracciati, vecchi cappotti qualunque cosa potesse scaldarli un po’. Era una visione orribile e loro ne erano consapevoli. Ho capito che volevano darci il benvenuto, che ci avrebbero abbracciato volentieri ma li tratteneva il pudore e l’imbarazzo. Si vergognavano di loro stessi, di come erano ridotti. Così solo gli occhi si sono mossi, hanno cercato i nostri e li hanno incontrati.
Non sapevo dove mi trovavo. Non sapevo che cosa fosse quel luogo, chi fossero quegli uomini. Avevo solo la sensazione che in quei momenti stava avvenendo qualcosa di buono. Non ho fatto il giro del Campo, era troppo grande. Altri soldati stavano arrivando. Con i miei compagni ho provato ad avvicinarmi a una baracca dove c’erano solo donne, ma sono stato respinto da un odore terribile. Quelle prigioniere erano gravemente malate, non erano neppure in grado di alzarsi per un saluto. Alcune di loro probabilmente erano già morte.
Abbiamo lasciato la baracca, quel terribile puzzo ci ha inseguito dappertutto, era un odore fortissimo di bruciato. Ma non solo di legna.
Ci siamo guardati attorno. Non erano molti i prigionieri del Grande Campo, dovevano averlo sgomberato poco prima che noi arrivassimo. Abbiamo cercato di comprendere qualcosa di più, chi erano quelli che erano rimasti, da dove venivano. No, non abbiamo capito che erano ebrei. Loro non si presentavano come tali. Dicevano solo “io sono polacco”, “io sono ungherese”. Non conoscevano la nostra lingua e noi non conoscevamo la loro. Abbiamo detto qualche parola in inglese o in tedesco. Qualcuno ha provato a parlare polacco. A me sembravano soprattutto ungheresi perché continuavano a ripetere “Hungari, Hungari” .
Nessuno di noi ha capito l’entità dello sterminio che si era compiuto dentro quei fili spinati in quei momenti, non abbiamo veramente compreso che cosa era il Grande Campo. Del resto ne ho visto solo una parte, perché il mio compito, il nostro dovere, non era occuparci di quelle ombre ma stanare i tedeschi, inseguirli. Quegli scheletri coperti di stracci erano apparsi all’improvviso senza che nessuno ci avesse avvertito e li abbiamo lasciati in fretta perché non potevamo permettere che il nemico si allontanasse. Non ne abbiamo neppure parlato con i nostri comandanti.
I prigionieri hanno capito che eravamo russi, che era arrivata l’Armata Rossa. Sembra incredibile ma avevano percepito che per i tedeschi le cose si stavano mettendo male e che avevamo liberato Cracovia. Avevano sentito i rumori della battaglia, i colpi dell’artiglieria.
La verità sul Grande Campo si è fatta strada nelle nostre teste lentamente. La sera noi soldati che lo avevamo attraversato ci siamo incontrati e abbiamo cominciato a raccontare. C’era chi aveva visto quel che restava dei forni crematori che i tedeschi avevano fatto saltare prima della fuga. Abbiamo scoperto che quel terribile odore veniva dai cadaveri che erano stati depositati a strati sulla legna per poi dar loro fuoco. C’erano solo malati in quel campo. Era rimasto chi non poteva muoversi. Gli altri erano stati portati via. Ciascuno di noi ha fatto un rapporto al suo comandante e le notizie sono arrivate ai livelli superiori . Quel campo era Aushwitz. Io venivo dalla Russia, avevo attraversato l’Ucraina, le terre che i tedeschi avevano occupato, avevo visto scene terribili, di dolore, di sofferenza. Sofferenza inaudite. Se noi soldati ci fossimo lasciati impressionare, se il dolore si fosse impadronito dei nostri pensieri, sarebbe stato impossibile andare avanti. Ma noi avevamo un compito, un compito importante: dovevano cacciare dalla nostra patria i soldati di Hitler, sconfiggere i nazisti. Avevano distrutto i nostri paesi, le nostre case. Il Grande Campo era l’ennesimo orribile disastro provocato dalla guerra e per noi era la prova, un’altra prova, che dovevamo compiere il nostro dovere fino in fondo. La compassione era tanta, ma non ci potevamo fermare, il dolore era grande ma lo mantenevamo alla superficie del cuore, abbiamo evitato che penetrasse in profondità. Non potevamo ascoltarlo.”
[…] *** La testimonianza di uno dei primi cinque soldati sovietici che per primi entrarono ad Auschwitz >> […]