Con Morto Stalin se ne fa un altro il regista italoscozzese Iannucci si conferma Messia della satira
di Maurizio Zuccari
Mettete insieme un pubblicitario e un disegnatore francesi di grido, un regista italoscozzese con la faccia da prete e padre napoletano dalle mani in pasta nella pizza, come d’uopo, in quel di Glasgow, e fatene un film. Un’opera seconda, quella d’Armando Iannucci, tratta da un fumettone – graphic novel, come suol dirsi – dal titolo d’antan: La mort de Staline. Il risultato di Morto Stalin se ne fa un altro – questo il titolo nelle sale italiane – è già segnato e tutto qui. L’opera tratta dal doppio volume di Fabien Nury e Thierry Robin ripercorre le vicende legate alla morte del “Magnifico Georgiano” in un’ottica non proprio inedita ma certo originale. Dove d’italiano non c’è nulla e di politicamente scorretto tutto. Al punto che, visionato da una commissione della Duma, il film ha suscitato un giudizio così tranchant da vietarne la visione in Russia. «Non ho visto niente di più disgustoso nella mia vita», ha dichiarato Yelena Drapeko, portavoce di Medinsky, e dal ministero della Cultura è arrivato il niet.
Poco male per Iannucci, che sulle bizze del potere s’è fatto un nome, dando corpo a fortunate serie tv che ne mettono in luce le follie, mandando in visibilio critica e pubblico (da The day today a Veep, Vicepresidente incompetente). Morto Stalin – qui il trailer – è una farsesca ricostruzione delle ultime ore del leader sovietico e della sarabanda che si scatena alla sua morte nella trista compagnia d’accoliti impegnati a raccoglierne l’eredità. Isolati e messi da parte i fragili figli del dittatore, Vassilij e Svetlana, i vari Berija, Kruscev, Mikojan, Buganin, Kaganovic, Molotov, Malenkov, Zukov si muovono e tramano come macchiette al capezzale del Piccolo padre, intenti nella quadratura del cerchio di carpirne il lascito sconfessandone l’operato senza demolirne la figura. Finché il potente capo dell’Nkvd (ex Kgb), Berija, viene fatto fuori senza riguardi e l’insignificante Kruscev s’avvia a togliere ai compari quel potere assoluto a cui nessuno l’avrebbe associato, da cui sarà scalzato a suo tempo da Breznev.
Le lotte di potere s’intrecciano ai conflitti personali tra una gag e l’altra, spinte sul filo di un humour anglosassone che mette in ridicolo omicidi seriali e colpi bassi, boutade e massacri d’una popolazione inerme e in sostanziale buona fede, vissuta e sopravvissuta nel mito di Stalin come tutto il comunismo mondiale. La dissacrazione di un tempo eroico, così dissimile al nostro, la trasformazione del dramma in burla, così tipica dell’oggi, che tanto hanno disgustato i censori postsovietici lascia presumibilmente perplessi gli spettatori d’Occidente. Distanti anni luce dai fatti di quel marzo 1953, narrati con notevole sagacia e fedeltà, e interpretati da un cast internazionale all’altezza e di tutto rispetto. Non è facile essere esilaranti e stomachevoli allo stesso tempo, volgere il comico in tragico e, viceversa, sul filo dell’orrido buttare tutto in caciara. Iannucci si muove bene in questo zigozago parossistico, dietro la macchina da presa si colgono echi shakespeariani, oltre che l’arguzia della bande dessinée. Qualcuno l’ha definito il Messia della satira. Non a torto se riesce a far sorridere pure su Stalin, notoriamente un tipo su cui c’era poco da scherzare.