Svizzera, fallisce il referendum contro il canone ma per i cinquemila lavoratori di SSR-SRG, la radiotelevisione pubblica, la ristrutturazione è dietro l’angolo
Lugano – Domenica sera i quasi 5000 dipendenti della SSR-SRG, la radiotelevisione pubblica svizzera, hanno tirato un sospiro di sollievo. Dopo una lunghissima campagna elettorale i cittadini svizzeri hanno rigettato lo scorso 4 marzo con oltre il 72% dei “no” l’iniziativa popolare che proponeva l’abolizione del canone radiotelevisivo. Se i sondaggi avevano previsto la vittoria di misura dei “no”, nessuno si aspettava un risultato così chiaro: per passare, l’iniziativa avrebbe dovuto avere non solo la maggioranza dei cittadini, ma anche quella dei Cantoni e tutti temevano che il Ticino, il cantone di lingua italiana, avrebbe votato “sì”. Ma così non è stato: un segnale in più dell’attaccamento della popolazione al servizio radiotelevisivo pubblico dopo anni di attacchi pretestuosi da parte delle forze di destra ultraliberiste e identitarie.
Un “sì” all’iniziativa avrebbe significato la fine del sistema che ha retto il mondo dei media in Svizzera, segnato dalla complessità di un paese quadrilingue nel quale l’informazione deve essere garantita in tedesco, francese, italiano – le tre lingue principali – e il romancio e dove senza servizio pubblico radiotelevisivo il federalismo che regge tutta l’architettura politica e istituzionale del Paese rischierebbe di diventare una maionese impazzita.
Gli iniziativisti, guidati dall’UDC (l’Unione democratica di centro), il partito xenofobo e anti-immigrati di Christoph Blocher, proponevano di riscrivere la costituzione, che garantisce il finanziamento al servizio pubblico attraverso il canone, e di rimettere ogni anno le concessioni all’asta, determinando in questo modo la probabile chiusura della SSR-SRG e un’ondata massiccia di licenziamenti. Non a caso i dirigenti dell’azienda pubblica di informazione hanno affrontato la campagna spiegando che non c’era nessun “piano B”: un sì all’iniziativa avrebbe significato chiudere i battenti, punto e basta.
Nel 2016 la SSR-SRG ha raccolto dal canone (la cui riscossione è affidata a un’azienda privata di nome Billag e ammontava a 451 Franchi all’anno) circa un miliardo e 217mila Franchi, che servono a finanziare le emittenti radiofoniche e televisive di servizio pubblico e di cui costituiscono quasi il 62% del totale delle entrate. Il resto dei finanziamenti provengono dalle entrate pubblicitarie, dalla vendita di programmi, da sponsorizzazioni, ecc.
E’ dunque chiaro come l’abolizione del canone – il più costoso d’Europa – avrebbe avuto conseguenze disastrose su questo enorme apparato mediatico, reso finanziariamente oneroso dalla necessità di garantire spazi anche alle minoranze linguistiche e alle comunità più discoste di quello che resta un Paese alpino. Basti pensare che la tassa di ricezione costerebbe il 42% in meno ai cittadini se la SSR-SRG trasmettesse in una sola lingua invece che nelle quattro lingue nazionali.
Per garantire una corretta rappresentazione nei media pubblici della complessa realtà linguistica, culturale e politica della Svizzera, circa due terzi delle entrate del canone sono distribuiti dalla casa madre bernese alle sue sette unità aziendali, secondo una “chiave di ripartizione” che fa sì, per esempio, che la RSI (la Radiotelevisione svizzera di lingua italiana) riceva circa il 23% del totale. Una cifra che valutata solo in termini economici non avrebbe senso: il Cantone Ticino, con i suoi 354mila abitanti , rappresenta poco più del 4% della popolazione totale, che ad oggi ammonta a circa otto milioni e mezzo di persone.
Questo sistema ha garantito per decenni agli svizzeri canali radio e TV di qualità in media piuttosto elevata, con un settore informativo rispettato in tutta Europa e un intrattenimento che – nonostante a volte provi a scimmiottare i vicini tedeschi, francesi e italiani – ha saputo mantenere una certa decenza, senza affondare nella volgarità e nell’idiozia.
Bene hanno fatto gli svizzeri a difendere questo patrimonio, ma non è tutto oro quello che luccica: l’altra faccia della SSR-SRG è quella di un’azienda prona – soprattutto tra i suoi quadri dirigenti – al rispetto delle compatibilità politiche, in un Paese che dire moderato è poco. I giochi politici e gli scambi di favori sono all’ordine del giorno, così come il nepotismo e il clientelismo: accanto a migliaia di collaboratori che fanno il loro lavoro con professionalità c’è un’inflazione di dirigenti, capi e sottocapi, la cui funzione non è ben chiara nemmeno a loro stessi. Una dirigenza che è arrivata impreparata all’appuntamento con la rivoluzione digitale e che ora arranca nel tentare di recuperare il terreno perduto.
L’arroganza dei dirigenti della SSR-SRG, poco attenti ai mutamenti della società svizzera, ha rischiato di portare l’azienda al disastro allontanando i cittadini: su questo sentimento di sfiducia hanno fatto leva gli iniziativisti, che se anche hanno perso questa battaglia sono però riusciti ad imporre un dibattito fortemente inquinato dalla loro ideologia ultraliberista. Così, il giorno dopo la vittoria, il direttore generale della SSR-SRG Gilles Marchand – dopo aver negato l’esistenza di un “piano B” in caso di sconfitta – ha annunciato il varo di un “piano R”, dove la R sta per riforme o – più realisticamente – ristrutturazioni.
Nel 2019 arriveranno dunque tagli, che significheranno non solo risparmi in termini di efficienza, di minori spese per programmi e produzioni proprie, ma anche prepensionamenti e, naturalmente, licenziamenti. A subirne le conseguenze saranno i dipendenti impegnati nella produzione quotidiana di contenuti audiovisivi, che vedono da anni aumentare il loro carico di lavoro così come la precarietà: la SSR-SRG ricorre ormai da anni a contratti a tempo determinato e a giornata, che costringono i giovani che si affacciano al mondo dei media a una intollerabile insicurezza. Questo è particolarmente vero tra i tecnici audio-video, costretti dalla politica dell’out-sourcing, a lavorare per conto terzi, senza garanzie e con pesanti carichi di lavoro.
Nel 2016 la direzione della RSI (la Radiotelevisione di lingua italiana) credendo di saziare così gli appetiti della Lega dei ticinesi, il partito xenofobo di ultradestra favorevole all’abolizione del canone, decise di licenziare 18 persone per dare un “segnale” politico. I dipendenti prescelti per fare da capri espiatori sull’altare dei giochi politici del cantone di lingua italiana vennero avvertiti del loro licenziamento al momento, da un responsabile delle risorse umane accompagnato da un dipendente della sicurezza. Vennero loro concessi 20 minuti per raccogliere le loro cose e accompagnati all’uscita; i loro account di posta elettronica chiusi e i loro badge d’entrata requisiti.
Un licenziamento “all’americana” che ha sollevato un’ondata di indignazione, non solo tra i dipendenti della RSI e da allora il clima nell’azienda resta molto teso: il sindacato dei media (SSM) limitato nel suo agire da una legislazione del lavoro che in Svizzera è piuttosto restrittiva e da anni di flirt con la direzione dell’azienda, in seguito ai licenziamenti si è dimostrato più combattivo e ha guidato la campagna contro l’iniziativa per l’abolizione del canone, organizzando una grande manifestazione a Bellinzona, il capoluogo cantonale, lo scorso 27 gennaio. I dipendenti per parte loro mostrano di non avere più fiducia nei confronti della direzione dell’azienda pubblica e si preparano ad assorbire il colpo dei nuovi licenziamenti previsti nel 2019.
Ora, nonostante il sollievo del voto del 4 marzo, inizia un percorso burrascoso per la SSR-SRG: il “piano R” che avrebbe potuto rappresentare un’occasione per ridare vita a una riflessione collettiva sui media pubblici come bene comune rischia di diventare la vendetta a posteriori dei partigiani anti-canone, con massicci ridimensionamenti in nome del mercato e la svendita di interi settori ai media privati, i cui appetiti sono stati finora ostacolati dal sistema pubblico.