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Perché Putin ha preso tutti quei voti

Putin, “eletto per la sesta volta”

Putin, perché ha stravinto le elezioni? Ci sono stati davvero i brogli? Chi erano gli oppositori? È reale il consenso?

Il largo consenso elettorale a Vladimir Putin non può sorprendere, dato che si spiega in primo luogo con l’assenza di oppositori credibili. Gli è bastato che una sentenza di un giudice compiacente impedisse la presentazione dell’unico potenziale candidato non addomesticato, il blogger Aleksej Navalnyj, che pure non aveva grandissime possibilità, dato che quando aveva provato a diventare sindaco di Mosca non era arrivato al ballottaggio pur conquistando un rispettabile 27%. Gli altri candidati erano destinati in partenza a percentuali insignificanti, intorno o sotto l’1%, o inchiodati a un ruolo tradizionale di oppositori di sua maestà, come il rissoso e volgare (e antisemita) Vladimir Žirinovskij (5,67%) o il candidato apparentemente nuovo del PC Pavel Grudinin, “imprenditore comunista”, così poco temibile come “alternativa” a Putin che non gli è stato impedito di presentarsi nonostante fossero stati scoperti in Svizzera ben 11 conti non dichiarati per circa un milione di dollari a suo nome.

Lo zoccolo duro dell’11,8% all’area del PCR era garantito dal risultato nettamente superiore nel nord siberiano e nelle lontane pianure asiatiche, ma aveva come contropartita risultati men che mediocri nelle due capitali storiche. Un altro candidato “comunista”, l’ex responsabile giovanile del partito di Zjuganov, Maksim Surajkin, che sosteneva di avere un programma sicuro (“Dieci colpi stalinisti al capitalismo”), si è fermato allo 0,68%. Un vecchio protagonista dell’era gorbacioviana, Grigorij Javlinskij, è arrivato solo all’1,04% mentre Ksenija Sobčak, la figlia dell’ex sindaco di Pietroburgo e primo sponsor di Putin Anatolij Sobčak, ha raggiunto l’1,66%. In poche parole, con avversari così non occorrevano brogli. In realtà pare che ce ne sia stato ugualmente un certo numero, in genere con pacchetti di schede già votati. Non tanto per vincere (non ce n’era bisogno) quanto per ridurre il numero dei non votanti.

Segnalati poi buoni premio, biglietti per concerti pop e buoni acquisto distribuiti in molti seggi; risulta anche che ci siano state pressioni sui molti dipendenti pubblici e soprattutto sui militari perché non si facessero tentare dall’astensione, che era stata suggerita da Navalnyj come forma di protesta per la sua esclusione. In ogni caso i militari, un po’ perché legati alla tradizione (tanto è vero che usano ancora simboli dell’era sovietica), un po’ perché soddisfatti del ruolo internazionale conquistato da Putin, hanno votato al 98%…

Ma erano convinti i voti per Putin anche in Crimea (dove c’è stata comunque una pressione sui tatari per scoraggiarne l’astensione annunciata) e nel Caucaso, regioni in cui sono stati riversati molti miliardi a fondo perduto. Insomma, il consenso a Putin può essere stato incentivato variamente, ma sostanzialmente c’era, ed era stato anche alimentato dagli stupidi e volgari attacchi non solo della May e di Johnson, ma di tutta l’UE, che ha partecipato alla crescente drammatizzazione del caso montato sulla eliminazione di una spia doppiogiochista da parte dei servizi segreti russi. Vicenda che può anche avere qualche fondamento di verità, ma è in sostanza di ordinaria amministrazione a tutte le latitudini e longitudini, e su cui nessun paese ha diritto a simulare una virginale indignazione. A partire dall’Italia, che ha visto uomini dei servizi come organizzatori o almeno come depistatori in un gran numero di crimini, da Piazza Fontana alle bombe sui treni, dall’uccisione di Ilaria Alpi e Milan Hrovatin, ai “suicidi eccellenti” di Calvi, Sindona, ecc. ecc…

Come stupirsi che una parte dei cittadini russi si siano avvicinati al loro governo nel momento in cui appariva minacciato senza rispettare le procedure diplomatiche, ed anzi condannato senza prove certe e senza appello? E magari accusato di grottesche manipolazioni preelettorali dei social media, che poi risultano in realtà praticate da più parti, ma senza grandi risultati (la vittoria di Trump ha due cause principali, il pessimo sistema elettorale statunitense che spesso fa vincere chi ha avuto meno voti, e la forza repellente di Hillary Clinton e del suo clan).

Ma le presunte “interferenze nel voto” hanno innescato sanzioni dannose e controproducenti. Anche l’annessione della Crimea è stata sentita come un risarcimento rispetto alle umiliazioni e ai saccheggi che hanno caratterizzato il decennio successivo al crollo del sistema sovietico, e sicuramente ha assicurato una parte “spontanea” dei consensi ottenuti da Putin. Rita Di Leo sul Manifesto la considera “l’ultima mossa della sua politica estera che sembra somigliare sempre più alla politica di potenza dell’URSS”. È vero, ma non dimentichiamo che quella politica apparentemente piena di successi aveva preparato il crollo dell’89-’91, che aveva cause endogene ancor oggi assurdamente negate da certi sostenitori nostrani delle teorie del complotto: in primo luogo l’enorme sproporzione tra i bisogni della popolazione e le spese militari, oltre alle risorse impegnate per la presenza diretta e gli “aiuti” a non pochi regimi africani e mediorientali. Mentre il sistema sanitario, scolastico, le infrastrutture e le industrie non militari conoscevano un deterioramento da cui il paese non si è ancora risollevato del tutto. E che rimangono problemi insoluti, per la dipendenza quasi esclusiva delle esportazioni da petrolio e gas, e una scarsa competitività di altre produzioni, col risultato che il rublo rimane molto debole nonostante una relativa ripresa del prezzo del petrolio. E se la retribuzione mensile media è di 39.000 rubli (557 euro), i livelli delle pensioni sono in genere molto più bassi, e spingono molti pensionati a continuare a lavorare in nero. Inoltre la politica estera di Putin ha un limite: ha alleati costosi (oltre che immorali, ma per Putin questo pesa poco) come Assad, oppure infidi come Erdogan, ma non un solo amico vero: la Cina si è congratulata per la rielezione, ma ha propri interessi ben distinti, che si concretizzano in interventi per assicurarsi il petrolio e il gas della Siberia costruendo nuovi oleodotti in quella regione, già ampiamente colonizzata da lavoratori e imprenditori cinesi. E non lo è solo la Siberia: anche a Mosca, nell’aeroporto di Sheremetevo, le scritte non sono più solo in russo e in inglese, ma anche in cinese. Un segno dei tempi.

Antonio Moscato

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