Torino, Grillo approva e Appendino si candida per le Olimpiadi invernali del 2026. Come se quelle del 2006 non avessero fatto abbastanza danni
di Checchino Antonini*
Il frutto più avvelenato delle Olimpiadi invernali di Torino 2006 arrivò all’ultimo momento: fu la cosiddetta «legge Fini-Giovanardi» sulle droghe. Si trattava del Dl 272/2005, «provvedimento che aveva due scopi e aveva prodotto due disastri», scrive Roberto Bui, al secolo Wu Ming1, nel suo “Un viaggio che non promettiamo breve”. L’intestazione diceva: “Misure urgenti per garantire la sicurezza ed i finanziamenti per le prossime Olimpiadi invernali, nonché la funzionalità dell’Amministrazione dell’interno. Disposizioni per favorire il recupero di tossicodipendenti recidivi e modifiche al testo unico delle leggi in materia di disciplina degli stupefacenti e sostanze psicotrope…” . Venne così abolita la distinzione tra droghe leggere e pesanti e da quel momento si poteva andare in galera anche per cinque grammi di hashish. Ma questa è un’altra storia.
O forse è un pezzo della solita storia. Grandi eventi e proibizionismo sono tasselli di un modello di sviluppo autoritario e predatorio. Parte di questa storia è ambientata a Bardonecchia, il comune più a nord tra quelli sciolti per infiltrazioni mafiose. Altri capitoli della vicenda si sono svolti tra le valli e giù fino a Torino. La città più indebitata d’Italia.
La storia è quella delle “Ri-Olimpiadi”. Torino si ricandida a ospitare i giochi invernali del 2026, forse in joint venture con Milano, “prestando” alcuni degli impianti alla città lombarda. Fatto sta che la sindaca Appendino ha spedito, senza nemmeno scomodare il consiglio comunale dove avrebbe trovato intoppi soprattutto fra i suoi, la lettera di manifestazione ufficiale d’interesse al Cio, forte di un via libera di Grillo (e a ruota di Di Maio) arrivato in diretta telefonica durante un’assemblea di pentastellati. Eppure, tra boschi abbattuti, buchi di bilancio, opere cadenti, bombe ecologiche, debito pubblico e morti sul lavoro, la città dovrebbe averne avuto abbastanza. Wladimir Andreff, economista della Sorbona, parla di «maledizione del vincitore dell’asta» ma a Torino la stampa locale, saldamente in mano ai poteri forti, ha saputo «coprire l’istituzionalità del fallimento», come spiega l’avvocaro Stefano Bertone, autore, con Luca Degiorgis, de “Il libro nero delle olimpiadi di Torino 2006”. Il circo mediatico è riuscito a occultare i nessi fra quelle Olimpiadi e i processi di dismissione del patrimonio, tra i cinque cerchi e i disastri causati dalle grandi opere. «Come ad esempio i 28 ettari di boschi di larice spianati per costruire una pista di bob a Cesana, nell’Alta val di Susa», racconta Nicoletta Dosio, memoria storica delle lotte sociali e ambientaliste. Un chilometro e mezzo di pista costata 110 milioni di euro (più altri 2 post-giochi), quando a soli 8 km ce n’era una che poteva essere adoperata. Ora è chiusa da otto anni con le sue 48 tonnellate di ammoniaca servite per fabbricare il ghiaccio olimpico che, in buona parte, si sono infiltrate nel terreno e fino alla Dora. Dove c’è l’impianto di biathlon di S.Sicario – costo 25 mln – c’era una pineta che è stata rasa al suolo. Per i cinque trampolini di Pragelato sono state sbancate 70mila tonnellate di terra, fu canalizzato e coperto parte del corso del Chisone alla modica cifra di 38 milioni di euro. «Vennero chiusi quasi subito per il rischio valanghe – continua Dosio – lo stesso che non ha mai consentito che venisse aperta la struttura alberghiera da 120 posti a fondo valle costata 20 milioni. Sarebbe stata una nuova Rigopiano!». 20 milioni costò anche l’anello della pista di fondo, poi declassata, costruita sotto il Sestriere, la stazione di sport invernali di proprietà della Famiglia Agnelli che, in questa storia, ha un ruolo da protagonista. Da qui venne lanciata, nel ’97, l’idea delle Olimpiadi torinesi, in occasione dei Mondiali di sci. Sestrieres Spa è una società del gruppo Fiat che gestisce gli impianti anche nelle Valli di Susa, Claviere, Cesana, Sauze d’Oulx, dove l’impianto per il free style, costruito in zona uranifera, è stato utilizzato per soli sei giorni e smantellato sei anni dopo. Uomini e donne del Gruppo furono piazzati, in barba a ogni ragionamento sul conflitto d’interesse, in ruoli chiave – pubblici e privati – della promozione e realizzazione dei lavori e dei giochi. Da quell’annuncio iniziò anche il lavoro di Bertone. «Potevano starci certe persone? Potevano essere fatti certi lavori? Perché non risultano gare di appalto europee? Siamo sicuri che siano stati spesi dal Comune 280 mln tra il 2003 e il 2005 per la promozione dell’evento quando l’Agenzia Torino 2006 e il Toroc, il comitato organizzatore, avevano la stessa mission?», domande che Bertone avrebbe voluto consegnare ai Pm di una procura già allora più solerte contro i No Tav che contro i devastatori dell’ambiente o della cosa pubblica.
Al Sestriere l’illuminazione costata 7 milioni di euro non viene più utilizzata da allora, chi va a sciare di notte? Gli addetti ai lavori sanno benissimo quanto i mercati alpini siano ormai saturi o, addirittura in declino come rivela un dossier di Domaines skiables de France, la “confindustria” dell’impiantistica francese. Anche il Cio, il discusso comitato internazionale olimpico, sa anche quanto sia difficile piazzare in Europa il prodotto olimpiadi. Per questo ha dovuto modificare le regole d’ingaggio per chiedere giochi “sostenibili”. Ma il 67% dei cittadini di Innsbruck e il 54% dei tirolesi hanno bocciato, in autunno, l’idea di ospitare loro il grande evento e sembrano freddini anche gli svizzeri di Sion, sopra Ginevra, che decideranno a giugno ma un sondaggio vede il no attestato già al 59%. Ma nemmeno il ricordo dei morti nei cantieri frena l’entusiasmo di Appendino e del trasversale partito olimpico, esulta la Camera di commercio, deliberano i comuni dell’Alta Valle, si rinverdisce il ricordo di due settimane fantastiche, felici banche, Pd, partiti del cemento e le ‘ndrine, parte del paesaggio piemontese da alcuni decenni. Il movimento No Tav manifestò al Palazzo delle Feste di Bardonecchia con i nomi dei caduti scritti sugli striscioni e più tardi Coca Cola fece deviare il suo sponsorizzatissimo tedoforo perché il sindaco di Bussoleno (Beppe Joannas del Prc, ora consigliere a Chiomonte) aveva proibito l’ingresso dei simboli della multinazionale allora sotto inchiesta per la morte di decine di operai e delegati sindacali nei suoi stabilimenti colombiani.
«Nemmeno fa riflettere il fatto che fu allora che si sperimentò l’uso della scuola pubblica per fini privati e partì il business dei volontari – continua Dosio mentre raggiunge Claviere con cibo e coperte per i migranti che arrivano a quella frontiera – 20mila ragazzi lavorarono gratis per Torino 2006 e alcuni docenti vennero pagati extra per fargli dei corsi di inglese durante l’orario scolastico». Ancora più grave della desolazione seminata dalle opere inutili, è l’intrico tra giochi e debito che, da allora, condiziona la vita dei torinesi. Torino è la città più indebitata d’Italia, impressionanti le analogie con la vicenda ateniese.
2 miliardi e 800 milioni, vennero a costare quei giochi, quasi sette volte la previsione iniziale, «più di Atene, Salt Lake City e Atlanta», precisa ancora Bertone ricordando che il turismo non è decollato e che il risultato televisivo fu al di sotto delle aspettative. L’Istituto Bruno Leoni (“idee per il libero mercato”) ha calcolato, al netto dei benefici diretti e indiretti, che Torino 2006 ci ha rimesso 650 milioni di euro. Il debito del Comune era di 98 miliardi di lire alla fine del ’96. All’epoca si cominciava a immaginare il futuro di Torino senza l’industria dell’auto. Così ebbe inizio una stagione di grandi opere e, naturalmente, la febbre olimpica, preceduta da quella per i mondiali di sci. Nel 2003 si tocca quota un miliardo e 600 milioni di euro, 2 nel 2005 e 2,8 nel 2006. Ogni anno servono almeno 200 milioni di euro (c’è chi dice 287) solo per pagare gli interessi e la città ha acceso mutui con Banca Intesa, Unicredit e Cdp. Non è facile scovare dove sia stato nascosto il debito, nelle pieghe del bilancio comunale e di quello del “Gruppo consolidato della città di Torino” che considera anche lo stato delle partecipate. E’ la finanza creativa ma il “disallineamento” dei conti (ad esempio di Gtt, società del Tpl) è al centro di inchieste della magistratura. Intanto, proprio dal 2007, è decollata a ritmi forsennati la svendita del patrimonio pubblico. E intanto, il consiglio comunale ha appena iniziato a discutere della privatizzazione totale di Iren, la mega-multiutility torinese, la cassaforte della città grazie ai dividendi per le forniture di gas e il trattamento dei rifiuti. E, per recuperare soldi, la città sta chiudendo due ospedali, Molinette e S.Anna, in cambio di una striminzita Città della Salute.
Il debito della Regione, a 6,7 miliardi nel 2004 era quasi raddoppiato nel 2009, a 12,5 miliardi di euro. Ogni anno servono 600 milioni tra interessi e quota capitale. Così il debito olimpico è stato spalmato fino al 2035: si crea debito e si occulta. Infatti l’ex sindaco Chiamparino può dichiarare placido che il Toroc, Torino Organising Committee, soggetto privato, ha chiuso in attivo scordandosi di precisare che quel passivo fu colmato da Italia Evolution (spa 100% pubblica) e altri enti pubblici a vario titolo. «E’ un gioco costruito per far sputare alla città i suoi beni fondiari e immobiliari, per imporre la rinuncia ai servizi», commenta Antonella Visintin, torinese del Cadtm, il comitato per l’annullamento del debito illegittimo. La versione ufficiale narra di “olimpiadi del riciclo”, low cost, sostenibili, ecologiche, di un esperto amico di Grillo in persona che trasformerebbe gli errori del passato in crescita e sviluppo, della diversità politica e antropologica dei pentastellati ma l’associazione Pro Natura ricorda che anche nel 2006 si prometteva che sarebbero stati riciclati gli impianti esistenti e già si prevede che si gonfieranno i costi della sicurezza, un grande evento – ormai – è come una guerra. «Ma due miliardi di euro, la spesa di cui si parla, sono 4mila miliardi di lire. Una cifra enorme per due settimane di gare, specie al tempo del fallimento conclamato del gigantismo olimpico ormai ammesso anche dal Cio», osserva Stefano Bertone.
Dentro i cinquestelle la partita, però, è ancora tutta aperta. In ballo la reputazione di un partito che, a queste latitudini, s’è costruito come voto utile per battaglie ambientaliste. «C’è un forte dibattito interno – dice a Left, Francesca Frediani, informatica di 44 anni, valsusina e consigliera regionale M5s da tre anni – ma ancora non si tratta della candidatura: è solo la manifestazione di interesse». Frediani spiega che si aprirà una fase di studio sul dossier delle olimpiadi sostenibili. «E’ questa l’idea che ha affascinato Grillo – spiega la consigliera senza nascondere la sua collocazione tra gli scettici – ma ci sarà un dibattito e decideremo in base ai dati». La geografia interna vede, per ora, il gruppo regionale compatto contro il grande evento, assieme a una pattuglia di consiglieri comunali. Su posizioni «ottimiste», Chiara Appendino e le componenti più «di governo» del movimento che sono attratti dalla sfida. I «portavoce della Valle», come li chiama Frediani sono chiari su una cosa: «Oltre ai paletti ambientali, non accetteremo progetti che prevedano l’utilizzo di fondi pubblici».
All’orizzonte, nemmeno troppo lontano, la chiusura definitiva di Mirafiori, la crisi del polo dell’auto di lusso. E allora circenses senza più pane. «Più i processi di redistribuzione della ricchezza dal basso verso l’alto sono iniqui, più necessitano di eventi spettacolari e autocelebrativi». A citare l’antropologo anarchico statunitense, David Graeber è Maurizio Pagliassotti, giornalista e scrittore, tra gli animatori, con la pagina fb No Torino 2026, del movimento d’opinione contro il grande evento: «I numeri sono già oggi fuori controllo, dato che il preventivo odierno è pari al doppio di quello che fu fatto per Olimpiadi del 2006. Il debito è il vero sindaco di una città che ogni 5 anni deve nominare un commissario liquidatore, tagliare la spesa pubblica e gli scheletri di ciò che fu costruito, spesso dalla criminalità organizzata, solo dodici anni fa crollano nell’incuria: e questo processo è generale, dato che enormi buchi di bilancio e abbandoni sono le caratteristiche comuni di tutte le città che hanno organizzato i Giochi Olimpici. Torino, forse con Milano, rischia di essere l’unica città candidata d’Europa».
Gli impianti realizzati con denaro pubblico – Palavela, Oval, Palaisoizaki, Palaruffini, Palatazzoli – sono stati dati in concessione trentennale ai privati che useranno altro denaro pubblico per il loro utilizzo. Ipotesi futuristiche di cittadella dello sport, cittadella del ghiaccio, “Coverciano” della neve, sono via via tramontate. Dei sette villaggi olimpici, alcuni sono andati all’ente per il diritto allo studio, altri all’Atc, azienda residenziale per l’edilizia pubblica. Quello dell’exMoi, i vecchi mercati generali del Lingotto, costato 140 milioni, comincia quasi subito a cadere a pezzi. Era pieno di crepe e l’impianto idraulico è esploso. Resta in piedi solo grazie all’occupazione da parte di 1400 stranieri che, nei fatti, lo stanno riqualificando.
*una versione di questo articolo è uscita nel numero 13/2018 del settimanale Left