Dal 2012 in Italia ci sono stati quasi 900 casi di femminicidio. Ma questa parola, con il suo significato politico, tende a sparire sui media
di Marina Zenobio
Secondo i rapporti Eures dal 2012 al 2017 in Italia si sono verificati 891casi di femminicidio [157 nel 2012, 179 nel 2013,152 nel 2014, 141 nel 2015, 145 nel 2016, 117 nel 2017].
Dall’inizio di quest’anno sono almeno 23, una media di due ogni settimana, a cui va aggiunta la giovane vita stroncata di Sana Cheema (25 anni), sgozzata in Pakistan dal padre e dal fratello che non accettavano l’idea che Sana, che viveva e lavorava in Italia, volesse sposare un italiano andando quindi contro la tradizione familiare e la cultura del suo paese d’origine.
Eppure sui media la parola femminicidio è quasi scomparsa per tornare ad essere un mero omicidio. E questo non va bene perché con femminicidio s’intende la violenza estrema esercitata da un uomo su una donna in quanto donna, in nome di una sovrastruttura ideologica di matrice patriarcale, per cui non è casuale che, nella maggior parte dei casi di femminicidio, ad uccidere la donna è il partner, ex partner, il padre o un fratello. La parola femminicidio in Italia è arrivata nel 2001. Fino ad allora c’era solo un termine esistente nella lingua italiana per descrivere l’uccisione di una donna da parte del partner o il contrario, ed era uxoricidio. Non esisteva un termine per definire l’uccisione di una donna in quanto donna.
E’ nel 2008 che, grazie alla pubblicazione del libro di Barbara Spinelli “Femminicidio. Dalla denuncia sociale al riconoscimento giuridico internazionale” la parola è iniziata a farsi largo nella nostra lingua. Qualcuno sostiene che femminicidio sia una brutta parola, ma probabilmente è per una sorta di non riconoscimento dell’evento che la stessa evoca.
Secondo la criminologa e attivista femminista sudafricana Diana Russell, il femminicidio è un fatto politico che “si estende al di là della definizione giuridica di un assassinio e include quelle situazioni in cui la morte della donna rappresenta un esito, o la conseguenza, di atteggiamenti o pratiche misogine”. (in “Femicide: The Politics of Woman Killing”, 1992)
Nel 1993, l’antropologa messicana Marcela Lagarde iniziò ad usare la parola femminicidio per “catalogare” le innumerevoli uccisioni di donne a Ciudad Jarez, al confine tra Messico e Stati Uniti, una parola che serviva appunto ad indicare questo tipo particolare di uccisione.
Per Lagarde il femminicidio rappresenza “La forma estrema di violenza di genere contro le donne, prodotto dalla violazione dei suoi diritti umani in ambito pubblico e privato, attraverso varie condotte misogine -maltrattamenti, violenza fisica, psicologica, sessuale, educativa, sul lavoro, economica, patrimoniale, familiare, comunitaria, istituzionale- che comportano l’impunità delle condotte poste in essere tanto a livello sociale quanto dallo Stato e che, ponendo la donna in una posizione indifesa e di rischio, possono culminare con l’uccisione o il tentativo di uccisione della donna stessa, o in altre forme di morte violenta di donne e bambine: suicidi, incidenti, morti o sofferenze fisiche e psichiche comunque evitabili, dovute all’insicurezza, al disinteresse delle Istituzioni e alla esclusione dallo sviluppo e dalla democrazia”.