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Erdogan invade l’Iraq. Il Sultano cerca voti sulla pelle dei curdi

La Turchia ha dato il via a un’operazione militare contro l’Iraq. Si sta aprendo una nuova fase della guerra in corso in Medio Oriente

di Andrea Zennaro

La Turchia ha dato il via a un’operazione militare contro l’Iraq. Si sta aprendo una nuova fase della guerra in corso in Medio Oriente.

Negli ultimi giorni le truppe di Ankara hanno attaccato a sorpresa l’Iraq, come già avevano fatto con la Siria. Il governo di Baghdad non è intervenuto ma le YPG (Unità di difesa del popolo curdo) e le YPJ (Unità di difesa delle donne curde), gruppi armati a protezione del confederalismo democratico in vigore in Rojava (il Kurdistan siriano) presenti anche in Iraq, stanno portando avanti una strenua resistenza e, fino a questo momento, sono riuscite a impedire all’esercito turco di varcare il confine con l’Iraq. Ma l’enorme disparità militare lascia facilmente ipotizzare che la resistenza curda, per quanto forte e determinata, non riuscirà ad avere la meglio a lungo.

In questa guerra la coalizione internazionale guidata dagli Stati Uniti sta giocando un ruolo ambiguo. Dopo che le milizie curde hanno prima liberato Kobane e poi respinto l’avanzata jihadista a Raqqa senza nessun significativo aiuto straniero, sono state lasciate da sole ad Afrin a subire l’offensiva comune della Turchia (membro della NATO) e dei jihadisti (formalmente nemici della coalizione di cui la Turchia fa parte).

Già durante le celebrazioni del Newroz a fine marzo l’esercito turco aveva bombardato alcuni villaggi del Kurdistan iracheno. Proprio in quei giorni la città curdo-siriana di Afrin era caduta sotto l’attacco congiunto di Turchia e bande jihadiste legate ad Al Nusra (sorella siriana dell’araba Al Qaeda) e ai superstiti di Daesh sconfitti a Raqqa e a Kobane dalle milizie curde. Subito dopo l’entrata dei suoi carri armati ad Afrin, il dittatore turco Erdogan aveva annunciato che la guerra sarebbe continuata nel resto della Siria e nel Nord dell’Iraq. Ma la presenza di soldati francesi e statunitensi, sebbene non ostili alla Turchia, ha frenato l’avanzata del “sultano” che avrebbe voluto colpire nuovamente Kobane, la Stalingrado curda.

Di fronte al tentativo di invasione turca dell’Iraq, il silenzio occidentale è tale da non far nemmeno giungere la notizia sui nostri giornali e nelle nostre televisioni. Questa tacita complicità si spiega con due ragioni fondamentali. La prima è che l’intervento turco, nonostante sia palesemente in contrasto con il diritto internazionale in quanto viola la sovranità di un altro Stato, viene fatto passare come un’operazione «antiterrorismo» volta ad annientare le basi del PKK sui monti del Qandil, nel Kurdistan iracheno; e, a causa di pressioni della Turchia, il PKK è considerato un gruppo terroristico sia dall’Unione Europea che dalla stessa NATO. Il secondo motivo che costringe al silenzio non tanto tutto l’Occidente quanto l’Europa in particolare è l’accordo sui profughi stretto tra Ankara e Bruxelles: il governo turco si è impegnato a fermare i flussi migratori che cercano di raggiungere i Paesi europei in fuga dalla guerra in Siria in cambio del silenzio sulla situazione in Turchia. Se le potenze liberaldemocratiche sanzionassero Erdogan per le numerose violazioni dei diritti umani di cui si è reso responsabile, egli potrebbe in qualsiasi momento rompere l’accordo e far affluire in Europa centinaia di migliaia di persone disperate.

A questo va aggiunto il fatto che il 24 giugno si terranno le elezioni presidenziali e parlamentari in Turchia, che Erdogan farà di tutto per vincere. La legge elettorale turca prevede una soglia di sbarramento al 10%, la più alta del mondo, e il divieto di candidatura per il PKK, fuorilegge dal 1984. Non è un caso che l’attacco ad Afrin prima e sul Qandil poi abbia luogo proprio in questo periodo: Erdogan sta usando la guerra al popolo curdo come strumento di consenso elettorale sfruttando il falso mito, assai diffuso in Turchia, del curdo terrorista e infedele. Una delle promesse elettorali di Erdogan è proprio l’annientamento del PKK anche al di fuori del territorio turco. I deputati e le deputate dell’HDP (Partito democratico dei popoli, disarmato ma filocurdo che ha di gran lunga superato lo sbarramento) sono attualmente in carcere in Turchia con l’accusa di costituire il braccio legalitario del PKK. L’altro obiettivo dell’attacco turco sul Qandil è proprio quello di screditare la campagna elettorale dell’HDP, largamente maggioritario nel Kurdistan turco, di cui il partito di governo AKP mostra di avere paura. Tra i candidati alla presidenza vi è Selahattin Demirtaş, leader dell’HDP e fondatore della sezione turca di Amnesty International, la cui permanenza in carcere gli impedisce il normale svolgimento della campagna elettorale. Inoltre, molte cittadine e cittadini curdo-turchi che attualmente abitano in Italia e in Europa con lo statuto di rifugiati politici non possono votare per il proprio Paese dato che anche solo entrare nell’ambasciata turca comporterebbe per loro l’arresto in quanto curdi e oppositori del governo senza nemmeno essere messi a conoscenza del reato specifico di cui sarebbero accusati.

Nonostante il PKK sia nato in Turchia, le sue basi militari e logistiche si trovano in Iraq proprio per risparmiare alla popolazione civile curdo-turca i massacri che l’esercito di Ankara compiva con il pretesto di annientarne la resistenza quando il principale focolaio di lotta era in Turchia. La scelta di trasferire la sede centrale dell’organizzazione in un altro Stato è stata fatta principalmente sapendo che il diritto internazionale vietava al governo turco di invaderlo. Peraltro, dopo la fine della dittatura di Saddam Hussein, il Kurdistan iracheno vive in una condizione migliore rispetto ai suoi fratelli turco siriano e iraniano. I combattenti curdi infatti, perseguitati per decenni dal regime di Hussein e usati dagli Stati Uniti per destabilizzare il Medio Oriente durante le guerre del Golfo e poi lasciati in balia della vendetta di Baghdad, hanno ottenuto un formale riconoscimento di autonomia dopo aver combattuto insieme alle truppe della NATO per rovesciare il governo iracheno.

Ma per Erdogan l’ONU e le leggi di guerra sono solo un fastidioso ostacolo alle sue manie di potere. Sprezzante degli accordi internazionali e dei diritti umani, non si farà scrupolo a usare brogli e violenza e a portare avanti la campagna elettorale sulla pelle di milioni di uomini e donne curde.

 

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