Omicidio Budroni. Condannato in appello per omicidio colposo l’agente che gli sparò il 30 luglio 2011
Otto mesi, con la condizionale. Tanto vale la vita di Dino Budroni, ucciso sul Gra di Roma, il 30 luglio del 2011, dalla pistolettata di un poliziotto dopo un inseguimento. Budroni, secondo la ricostruzione della parte civile, era ormai fermo, disarmato e con le mani alzate, bloccato da una gazzella dei carabinieri, quando da una volante della polizia è partito il colpo che lo ha ucciso. Otto anni dopo, in appello, la condanna per omicidio colposo, con le attenuanti e il pagamento delle spese e dei danni. Le motivazioni chiariranno le ragioni del giudice e la Cassazione, quasi sicuramente, chiuderà una vicenda giudiziaria che ha avuto come tappa intermedia un’assoluzione inspiegabile per i familiari di Budroni.
Era il 15 luglio 2014: aveva fretta il giudice romano che pronunciò, doveva cambiare incarico, aveva fretta – probabilmente – di togliersi quel fardello di processo rognoso: un omicidio commesso da una persona con la divisa ai danni di un cittadino senza divisa che, perdipiù, aveva commesso quella notte un bel po’ di reati. Ma quando gli spararono, probabilmente era fermo, secondo l’accusa.
Era il 15 luglio. Tre anni prima, il 30 dello stesso mese, Budroni era stato ucciso sul Raccordo anulare. La lettura della sentenza è stata un lampo tagliente per chi era lì ad attendere la sentenza. Un’ora e mezza di camera di consiglio e quella parola, «assolve», prima che il giudice sparisse nei meandri della città giudiziaria. Novanta giorni dopo le motivazioni, undici pagine, sembrarono una memoria dei difensori dell’agente, un ragazzo di trent’anni che nemmeno doveva trovarsi lì, quella notte, al posto accanto al guidatore. L’autista della Volante 10 doveva essere lui e non avrebbe sparato. Lui dice che avrebbe sparato perché la macchina di Budroni, che inseguiva da una ventina di chilometri, gli sarebbe potuta sgusciare ancora con una manovra repentina. A un suo collega è parso di sentire lo sparo nella fase del rallentamento, «ad una velocità diminuita ma ancora ragguardevole, forse di circa cento all’ora». Ma un carabiniere ha dichiarato che appena sentito i colpi «ci siamo fermati… girandomi ho visto il Budroni che era seduto». Il nodo è questo, uno dei nodi, almeno. Budroni era in corsa oppure era incastrato? «Budroni si è buttato sulla destra con l’intenzione, probabilmente, di prendere quell’uscita; io così ho avuto il modo di stringerlo contro il guardrail costringendolo a rallentare fino a fermarsi». Fino a fermarsi.
Chi pensa, ad esempio i familiari, che una sentenza del genere abbia ucciso una seconda volta Budroni, non riesce a capire perché quello sparo. Lo hanno detto i periti, i legali di parte civile (che sono Fabio Anselmo e Alessandra Pisa, veterani dal caso Aldrovandi di processi come questo e ora alle prese con i casi Cucchi e Magherini), la pubblica accusa che ha sostenuto che l’agente ha sparato male, ha sparato due volte, ha sparato quando non era necessario, senza che glielo ordinasse nessuno.
Il pm aveva chiesto due anni e sei mesi. Pochi per Anselmo, legale dei familiari della vittima, che aveva provato a dire che non fu eccesso doloso perché non è vero che l’agente sparò in rapida successione: le macchine erano ferme e l’angolazione degli spari dimostrerebbe che non si può liquidare la morte di un uomo come eccesso in un’azione legittima. Ma il difensore del poliziotto ha sostenuto che l’auto di Budroni correva ancora quando il suo cliente ha sparato. Due film completamente diversi ma al giudice è talmente piaciuto il secondo che nelle motivazioni della sentenza non sembrano esserci tracce dell’impianto e delle ragioni della pubblica accusa. E, invece, si dilunga, nella brevità complessiva, nella descrizione di quanto accaduto venti chilometri più a sud del luogo del delitto, quando Dino era così fuori di sé da minacciare gravemente la sua ex convivente e danneggiare il suo portone.
Servirà quella descrizione per sostenere che sparare era una mossa «adeguata e proporzionata» al contesto, per interrompere «quel comportamento di grave e prolungata resistenza». Ma in tanti dicono che era ormai già fermo, che la missione era compiuta si sarebbe potuto dire con successo, senza nemmeno brandire le armi.
In casi come questi la formula magica è «uso legittimo delle armi» perché il comportamento di Budroni è «indubbiamente da qualificare come una reiterata resistenza caratterizzata da entrambi gli elementi della violenza e della minaccia perpetrata nei confronti degli agenti». Le motivazioni dicono che la posizione del corpo al momento in cui fu colpito, era quella di chi sta per sterzare a destra per fuggire. Ma era già incastrato e pressoché fermo e pare impossibile che in quella posizione potesse essere una minaccia per il traffico blando di quelle ore dell’ultima parte della notte: la macchina, sul lato del paracarri non ha un graffio, dall’altra ha i segni del contatto con le volanti. La radio di bordo ha registrato le voci degli agenti: «Vagli addosso!». Le motivazioni dicono il contrario, che «il Budroni tentava di collidere con improvvise sterzate finché non impattava con la Beta Como», l’altra auto della polizia.
No, non era davvero necessario sparare quella notte. Aspettiamo le motivazioni della sentenza d’appello.