Crollo del Ponte Morandi: disastro inevitabile o tragedia del capitalismo?
L’articolo che pubblichiamo sulla tragedia di Genova presenta una documentazione essenziale e il quadro complessivo di scelte strutturali economiche e politiche che sono alla base di una catastrofe annunciata.
Pone in modo sempre più urgente il tema ineludibile della battaglia contro le privatizzazioni, della necessità del ritorno nelle mani integralmente pubbliche (no SPA e simili), e sotto il controllo dei lavoratori e degli utenti, di settori economici e di strutture fondamentali che non possono in alcun modo essere lasciati alla logica del profitto e dell’interesse privato (persino La Repubblica è spinta a scrivere che “la tragedia di Genova è un frutto avvelenato delle privatizzazioni”). Pone il tema di un vasto piano pubblico dei trasporti che integri in modo coerente e funzionale ai bisogni del paese, cioè dell’intera popolazione, la parte su gomma e quella su ferrovia; conferma il nostro no alla logica di grandi opere che servono l’interesse di pochi e le speculazioni e la necessità di un vasto progetto e piano di manutenzione delle reti esistenti e di messa in sicurezza di un territorio la cui fragilità è stata messa più volte in evidenza dagli avvenimenti disastrosi che si sono prodotti. In altri termini pone il problema dell’alternativa tra la logica privata del capitalismo e la logica dell’interesse pubblico e del benessere e della sicurezza ambientale di tutte le cittadine e dei cittadini; richiede una svolta profonda che non verrà né dai governanti attuali, né da quelli che li hanno preceduti, entrambi profondamente legati al sistema esistente, ma solo da una nuova mobilitazione di massa sociale delle classi lavoratrici e popolari.
Il crollo del ponte Morandi a Genova, sull’autostrada A10, con il suo conto, al momento in cui scriviamo, di 39 vittime, 16 feriti, di cui 12 in codice rosso, e 632 sfollati, è una tragedia immane, che ci colpisce amaramente e che segnerà a lungo la storia del nostro Paese.
Al doveroso cordoglio per le vittime, per i loro famigliari, e alla vicinanza con tutti coloro che vedranno la propria vita drammaticamente cambiata da questa sciagura, deve accompagnarsi un inizio di riflessione su come ciò sia potuto accadere e quali ne siano le responsabilità.
Cominciare, seppure a breve distanza dai fatti, a ragionare su alcuni elementi per un futuro giudizio politico su quanto è successo, non è un atto di cinismo. Il cinismo, semmai, è quello dei mercati finanziari, che già all’indomani del disastro hanno segnato il crollo delle quotazioni del titolo Atlantia, controllante di Autostrade per l’Italia. Il riflesso pavloviano (come quello canino, da cui deriva “cinico”) del capitalista: «Qui c’è da pagare un sacco di risarcimenti, meglio spostare i capitali da un’altra parte».
Le concessioni autostradali
Parlando di autostrade italiane, è opportuno fare un salto indietro nel tempo, nel 1997, anno in cui il governo Prodi approvò una nuova convenzione tra ANAS e Autostrade Concessioni e Costruzioni S.p.A.: le concessioni della gestione delle tratte venivano prorogate dal 2018 al 2038. Autostrade era, in quel momento, quotata in borsa ma controllata dall’IRI e quindi in mano pubblica.
Ma l’operazione ne preparava un’altra, di natura ben diversa. Nel 1999 (Governo D’Alema, Ministro dei Trasporti: Tiziano Treu) la Società Autostrade venne privatizzata: al Gruppo IRI, che era l’azionista di riferimento, subentrò con il 30% un nucleo di azionisti privati, riuniti nella Società Schemaventotto; il restante 70% fu quotato in Borsa.
Oggi Autostrade per l’Italia è una controllata di Atlantia S.p.A., di cui la famiglia Benetton è il maggiore investitore, e gestisce 3.000 chilometri di itinerari in Italia, tra cui la tratta da Genova a Savona dell’Autostrada dei Fiori.
Atlantia è una multinazionale a base italiana, con 7.400 dipendenti, che gestisce autostrade anche in Cile, India e Brasile e aeroporti in Italia e Francia e dal 2018, controlla l’operatore spagnolo di pedaggio autostradale Abertis Infraestructuras in collaborazione con ACS SA.
Nel primo semestre del 2018 ha riportato ricavi per 1,9 miliardi, di cui 1,7 miliardi derivanti da pedaggi, e un margine operativo (EBIT) pari a 930 milioni di euro.(1)
Come si può notare, i pedaggi costituiscono la prevalente voce di entrate delle società del gruppo, che sono altamente combattive nel cercare di strappare i maggiori incrementi possibili. Ad esempio, nel 2018, Raccordo Autostradale Valle d’Aosta ha impugnato al TAR il provvedimento del Ministero delle Infrastrutture che ha concesso un aumento delle tariffe del 52,69%, a fronte della richiesta presentata pari all’81,12%; analogamente si è comportata Società Autostrada Tirrenica, a cui è stato riconosciuto un incremento pari all’1,33% a fronte della richiesta presentata pari al 36,51%. I giudizi sono ancora pendenti.
Nel frattempo, non sembra granché cambiato l’atteggiamento dei governo nei confronti del potente concessionario autostradale. Nel luglio del 2017, l’esecutivo retto da Gentiloni (Ministero delle Infrastrutture: Graziano Delrio) ha negoziato con la Commissione europea un accordo ai fini del riconoscimento della proroga di 4 anni della durata della concessione di Autostrade per l’Italia, ovvero dal 31 dicembre 2038 al 31 dicembre 2042.
Il viadotto Polcevera
Il viadotto Polcevera, detto anche “Ponte Morandi”, dal cognome dell’originario progettista, fu completato nel 1967 da Società Italiana per Condotte d’Acqua (2) ed è stato un’opera cruciale dell’infrastruttura viaria ligure. Era infatti l’unico collegamento autostradale esistente tra Genova e il Ponente e oltre, verso la Francia, con 25,5 milioni di veicoli in transito ogni anno, quadruplicatisi negli ultimi 30 anni.
Dopo la tragedia, i mezzi di comunicazione hanno riportato le opinioni di numerosi tecnici, secondo cui le criticità costruttive del manufatto erano da tempo ben note. «Negli anni Novanta furono fatti molti lavori: gli stralli furono affiancati da nuovi cavi di acciaio – ha spiegato Antonio Brencich, docente all’Università di Genova – Indice che già al tempo furono rilevati cedimenti e si cercò di correre ai ripari integrando la struttura originaria per far sì che non insorgessero situazioni di pericolo. E sono tanti i genovesi come me che si ricordano cosa succedeva all’inizio passandoci sopra: era tutto un saliscendi. Morandi aveva sbagliato il calcolo della “deformazione viscosa”. Tradotto: di cosa succede alle strutture in cemento armato nel tempo. Era un ingegnere di grandi intuizioni ma senza grande pratica di calcolo». (3)
Va detto che il citato intervento di manutenzione straordinaria, con i cavi di acciaio aggiuntivi, negli anni Novanta fu attuato solo sulla pila n. 11 del ponte, quella situata più a est. Per le pile n. 10 (quella che è fatalmente crollata il 14 di agosto) e n. 9, solo 25 anni dopo, ovvero il 3 maggio di quest’anno, Autostrade per l’Italia ha pubblicato il bando per i lavori («Interventi di retrofitting strutturale del Viadotto Polcevera al km 000+551 dell’Autostrada A10»), per un importo di circa 20 milioni di euro.(4)
Come si spiega una simile distanza temporale tra i due interventi? Per quale ragione un lavoro così importante per la sicurezza fu a lungo rinviato? Per provare a dare una spiegazione, occorre dire qualcosa su una delle «grandi opere» italiane, la contestatissima «Gronda di Genova»
La «Gronda di Genova»
Il tratto autostradale tra Voltri e Genova, che comprende il manufatto sul progettato da Riccardo Morandi, è ritenuto un nefasto “collo di bottiglia” dai sostenitori dell’opportunità di una crescita illimitata del trasporto su gomma di persone e merci.
Nei decenni scorsi il concessionario autostradale, l’ANAS e le istituzioni locali cominciarono a ragionare sulle possibili soluzioni alternative.
Nel 2002 Autostrade per l’Italia propose uno studio sul nodo di Genova che comprendeva, tra l’altro, il raddoppio dell’autostrada A10, tratto Genova Voltri – Genova Ovest, tramite la costruzione di una nuova autostrada parallela all’esistente con l’attraversamento del torrente Polcevera con un nuovo viadotto in affiancamento al ponte Morandi. Il costo dell’opera sarebbe stato di 1,7 miliardi di euro e la realizzazione avrebbe richiesto poco meno di 8 anni. Il viadotto Polcevera sarebbe stato infine demolito.(5)
Questa fu solo la prima versione della cosiddetta «Gronda di Ponente» (la gronda di Levante invece, passando nell’entroterra del Tigullio, collegherà Chiavari con l’A7).
Nel 2003 ANAS stese un progetto preliminare secondo un diverso itinerario, caratterizzato dall’attraversamento della Val Polcevera tramite un tunnel sotto al letto del fiume, immediatamente a sud di Bolzaneto. Il costo era in questo caso di 2,2 miliardi di euro.
Nel 2005, tuttavia, le istituzioni locali tornarono ad ipotizzare l’attraversamento del Polcevera tramite viadotto, riconsiderando l’itinerario che prevedeva la realizzazione di un nuovo ponte sul torrente immediatamente a nord (a circa 150 metri di distanza) dell’esistente Viadotto Morandi.
Nel 2008 il Comune di Genova (con sindaca Marta Vincenzi) propose una soluzione che spostava l’attraversamento della Val Polcevera a Bolzaneto, evitando l’abbattimento del Morandi e aprendo una prospettiva di collegamento con la programmata Gronda di Levante. Il costo di questa ipotesi variava dai 2,2 ai 2,5 miliardi di euro.
Nel 2009 venne infine lanciato un dibattito pubblico sulla Gronda di Ponente, ipotizzando cinque diverse soluzioni, tre delle quali non prevedevano la demolizione del Viadotto Polcevera.(6)
Nel contempo, si sviluppò un ampio movimento popolare contro tale opera, concretizzatosi nella forma del Coordinamento dei Comitati della Val Polcevera e del Ponente, mentre in senso favorevole si espressero, sia pure con diversi accenti, le organizzazioni sindacali (CGIL e CISL), le associazioni di categoria (Confindustria e Confesercenti), la Camera di commercio e l’Autorità portuale.(7)
Contrarie all’opera furono anche le associazioni ambientaliste (WWF Liguria, Legambiente e Italia Nostra) e la sezione ligure dell’Istituto nazionale di urbanistica, che espresse «forte perplessità nei confronti di tutte le soluzioni proposte per la Gronda, per ragioni legate sia a un incremento della domanda di mobilità indotto dalla Gronda (come emerge dai dati di Aspi), sia a una sovrastima delle previsioni di domanda di mobilità al 2025» proponendo un “approccio incrementale, prudente e costruttivo” che affrontasse preliminarmente e urgentemente il destino del viadotto Morandi e il potenziamento del tratto genovese dell’A7.
L’opera da 4,5 miliardi di euro
Non è possibile qui ripercorrere tutto il dibattito. Ciò che conta è che alla fine fu partorita la decisione di realizzare questa «grande opera», del valore preventivato di 4,5 miliardi di euro, secondo una versione definita «ottimizzata» della proposta del Comune di Genova.
Il progetto prevedeva (purtroppo occorre esprimersi al passato) il mantenimento del Ponte Morandi, con la sola dismissione della rampa elicoidale di connessione tra il viadotto (traffico proveniente da Savona) e l’autostrada A7, in direzione Milano.
Sì è insomma deciso di realizzare un’opera con 64 chilometri di nuove autostrade, 24 viadotti, 23 gallerie, che richiederà scavi per 11 milioni di metri cubi e dieci anni di lavori. Attualmente sono in corso la progettazione esecutiva e alcuni opere propedeutiche.
In questo faraonico contesto, il malandato viadotto Polcevera del (forse sprovveduto) ingegner Morandi sarebbe dovuto rimanere al suo posto, con solo una dose di manutenzione straordinaria, benché fosse ben chiaro che l’opera avesse costi di mantenimento sproporzionati e che fosse ormai vicina alla fine del ciclo vitale.
L’Amministratore Delegato di Autostrade per l’Italia, Giovanni Castellucci, in un’intervista a Il Secolo XIX dello scorso 29 maggio (8), alla domanda se il ponte Morandi fosse un malato terminale, rispondeva: «E’ un’opera che richiede continua attenzione e manutenzione. Comprendiamo il disagio, ma crediamo che prima di tutto venga la sicurezza. Alla fine di questo intervento di manutenzione straordinaria, Genova avrà un’opera rinnovata». Per poi precisare che «si tratta del sostanziale potenziamento degli stralli della prima campata, in analogia a quanto fatto nella seconda».
Alcune (non) conclusioni
Sarebbe decisamente prematuro voler trarre un giudizio complessivo sulla tragedia di Genova a così breve distanza dai fatti e con ancora ben pochi elementi informativi a disposizione. Non spettano a noi, peraltro, valutazioni di tipo tecnico né di tipo giudiziario.
Abbiamo voluto ripercorrere alcune vicende storiche per chiarire i contesti e le decisioni politiche che costituiscono gli antefatti di questa bruttissima vicenda.
La privatizzazione, a partire dagli anni Ottanta, delle aziende che costituivano il nocciolo dell’intervento pubblico in economia, raccolte nel gruppo IRI, non ha in alcun modo giovato ai lavoratori e alle lavoratrici, né ai cittadini e alle cittadine, ma solo ai gruppi economici che si sono impossessati di asset fondamentali. Parliamo di Alfa Romeo, Finsider/Ilva, Aeroporti di Roma, Italstrade, Telecom Italia e molte altre. E ovviamente di Autostrade.
Nel settore autostradale, il sistema delle concessioni ai privati ha massimizzato la gestione delle stesse secondo logiche di profitto, riducendo gli interventi manutentivi, aumentando le tariffe all’utenza, producendo faraonici piani d’investimento costantemente disattesi e buoni soltanto ottenere infinite proroghe del termine degli affidamenti.
Le politiche di austerità hanno trasferito enormi quantità della spesa pubblica da finalità sociali e collettive a incentivi diretti e sgravi fiscali per le imprese, nonché al rimborso del debito, e hanno progressivamente svuotato le casse degli enti locali, deputati alla manutenzione di altre parti della rete stradale: ricordiamo il crollo del cavalcavia di una strada provinciale che sovrappassa la statale 36 “del Lago di Como e dello Spluga” il 28 ottobre 2016.
Infine, la politica delle «grandi opere», dal TAV Torino-Lione al Terzo Valico dei Giovi, dalla Pedemontana Lombarda al MOSE di Venezia, ha convogliato una quota sempre più consistente di risorse pubbliche verso realizzazioni faraoniche, raramente giustificate, in grado di soddisfare gli interessi della grandi imprese di costruzioni e delle maggiori società di ingegneria.
Nel caso specifico di Genova, la scelta degli enti locali, dei Ministri dei Trasporti via via succedutisi e, ovviamente, nel proprio interesse, di Autostrade per l’Italia, è stata quella di investire studi e risorse economiche nel progetto della Gronda autostradale. È difficile pensare che questo non abbia alcun rapporto con la sottovalutazione criminale della gravità della situazione del viadotto Polcevera e con le decisioni prese sul futuro del medesimo.
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(1)http://www.autostrade.it/documents/10279/4408513/Relazione_finanziaria_semestrale_2018_ASPI.pdf
(2) Condotte Spa ha fatto sparire, dopo il disastro, dal proprio sito web il riferimento a tale opera nel proprio portfolio. Tuttavia, se ne trova ancora traccia a questo indirizzo:http://cc.bingj.com/cache.aspx?q=http%3a%2f%2fwww.condotte.com%2fit%2fopere%2fopere.aspx%3fid%3d17&d=4720269646105387&mkt=it-IT&setlang=it-IT&w=1IzYarSc-plih-TS0MycCLb-t6eTU0CW. Si legge che: « Il viadotto Polcevera rappresenta il primo esempio di ponte strallato in calcestruzzo costruito in Europa. Opera di caratteristiche tecniche ancora oggi attuali, fu realizzata in un contesto urbano, fitto di insediamenti preesistenti».
Fino al 1970 Condotte d’Acqua è stata di proprietà dell’Amministrazione Speciale della Santa Sede e di Bastogi.
(4) Gara 200/A10http://www5.autostrade.it/applica/gare/gareapp.nsf/vwBDESDT/3ADE03ABCBEFAB35C1258282004A763A?opendocument&initPos=3&lang=IT&Lavori
(6) Comunicato del Coordinamento dei Comitati, 2 marzo 2009: “Noi non siamo ideologicamente contro la Gronda, ma ci battiamo in favore di una mobilità diversa e finalmente sostenibile. (…) Ci rendiamo perfettamente conto che la situazione dei trasporti cittadini non è più accettabile, ma il voler costruire una nuova autostrada in mezzo alle case, devastando un territorio già pesantemente martoriato negli ultimi decenni, anziché risolvere i problemi non farà che aumentarli in maniera esponenziale, con ricadute pesantissime sulle generazioni future”. “…per noi opzione zero significa rifiutare i 5 tracciati proposti perché è fondamentale che si parta da una fotografia della situazione attuale, la si aggiorni con dati e proiezioni derivanti dai progetti già partiti e da quelli definiti o in via di cantierizzazione in ambito urbano, da quelli realizzabili con risorse relativamente modeste”
(7) La CGIL in particolare ritenne l’opera necessaria “… per rispondere puntualmente alle necessità (del territorio genovese), non solo di crescita economica (poiché) (…) rappresenta un positivo contributo sul piano del miglioramento ambientale attraverso il minor impatto del traffico, soprattutto pesante sulla città” https://www.grondadigenova.it/wp-content/uploads/2018/02/Gronda-Relazione-conclusiva-della-Commissione.pdf
(8) https://www.grondadigenova.it/wp-content/uploads/2018/05/Articolo-il-Secolo-XIX-29-maggio-2018.pdf