Ponte Morandi, quando non c’era e quando non c’era più. Creazione e distruzione, unite dalla somiglianza che le forme hanno nella rappresentazione di sé
Da Genova-Certosa, Mauro Baldassarri
Una ragnatela di tubi per ponteggi Dalmine Innocenti si staglia contro un cielo il cui grigiore è messo in evidenza dal bianco e nero, avvolgendo le esili strutture portanti di uno dei moduli di ponente del ponte Morandi.
L’immagine è ripresa il 30 agosto del 1963, come ci raccontano i dorsi, circa un anno dopo l’inizio dei lavori; l’autore è Armando Barigozzi, operaio, che allora si dilettava con la sua macchina fotografica a fissare i cambiamenti in corso nel quartiere, nella città, in cui viveva. Donandoci così la preziosa testimonianza del suo sguardo sul mondo. Uno sguardo per forza di cose dal basso, per necessità di inquadratura ma anche per estrazione socio-culturale dell’autore. Armando era intelligente, ma non istruito. Il suo registro è quello delle classi subalterne, escluse per ragioni di censo o di istruzione dalla partecipazione attiva ai processi culturali. Sembra quasi di vederlo, piccolo uomo con la macchina fotografica, che guarda il progresso, e lo ammira, e lo immortala. Prendendosi sulle spalle una responsabilità che ancora non sa di avere: quella di documentare, di contribuire alla memoria, di lasciare aperta per noi una finestra sul suo presente, sul nostro passato.
Le immagini di oggi, le immagini del dopo-crollo, ci mostrano la stessa cesura nella struttura.
A un extraterrestre sbarcato ora sulla terra si potrebbe anche raccontare che manca solo un modulo al completamento della costruzione. Creazione e distruzione, unite dalla somiglianza che le forme hanno nella rappresentazione di sé. La nettezza della separazione fra i moduli in costruzione ritorna nell’identica nettezza dei margini sospesi dei tronconi superstiti.
Inizio e fine, creazione e distruzione, alfa e omega vengono così a confondersi, perdendo identità. E confondendosi ci confondono. Se non ci venisse in soccorso quel bianco e nero irripetibile, fatto di luce e sali d’argento, di pellicola, carta, sviluppi e fissaggi, potremmo davvero illuderci che manca solo un pezzo, poi il ponte è finito.
Quel bianco e nero non è assolutamente riproducibile, solo imitabile, e allora l’inganno sarebbe davvero totale. Le immagini di oggi sono invece a colori. Il tempo, che intercorreva fra lo scatto e la visione dell’immagine, è però lo stesso tempo che, dilatato smisuratamente, intercorre fra la costruzione e il crollo del Morandi. Quindi è il colore a segnare la cesura temporale fra quei bordi perfettamente lineari dei margini del ponte, sospesi nel vuoto.
Il pilone 9, quello crollato, ci ricorda invece che tra la vita e la morte, fra il buio e la luce non c’è solo una differenza cromatica. Eccolo lì, in costruzione, sulla sponda sinistra sponda del torrente Polcevera dove non c’è ancora via Perlasca, dove non ci sono i capannoni, il deposito dell’azienda di igiene urbana. Dove non c’è nulla, tranne lui, in costruzione. Lui, quello crollato.
E qui non è più il colore a fare la differenza, ma la la relazione presenza/assenza. Relazione in cui la fotografia è allo stesso tempo surrogato (Ortoleva) e certificato (Barthes) della presenza, ma anche del suo contrario, dell’assenza.