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Migranti, le trappole verbali che costruiscono il razzismo

Emigrato-Migrante. Identità, narrazione, linguaggio: una trappola verbale.

di Mauro Baldassarri

Si è svolto a Genova il 16 novembre 2018 uno degli incontri territoriali del Summit nazionale delle diaspore, un percorso di dialogo tra le associazioni e comunità di migranti in Italia, le istituzioni, le imprese e il settore no profit. Il Summit genera occasioni di incontro tra questi soggetti, per creare momenti di formazione e sensibilizzazione sulle tematiche legate a migrazione e sviluppo, fare rete, progettare sinergie e collaborazioni nei paesi emergenti.

Da uno dei focus group svolti a Genova, quello su comunicazione e narrazione, nasce questo articolo.

Emigrazione, con il suo prefisso di allontanamento -e (-ex; ex migrare) mette l’accento sul distacco, sulla separazione, sull’allontanamento, e quindi sulla destinazione verso un altro luogo definito e circoscritto, dove sia possibile trovare lavoro e migliori condizioni di vita.

Migrazione invece si pone come più generico, riferendosi sia al trasferimento di masse umane da un luogo all’altro, sia al continuo spostarsi di tali masse (ad es.: popoli nomadi). Ha inoltre una evidente parentela con il vocabolario zoologico.

Le ondate di immigrazione che hanno investito l’Italia, in quantità crescente, negli ultimi trent’anni, hanno posto – tra l’altro – il problema di come definire chi, per motivi di enorme disagio, è costretto a lasciare il proprio Paese e cerca di trasferirsi, temporaneamente o definitivamente, in Paesi in cui le condizioni e le opportunità di vita sono migliori.

In questo contesto, migrante tende a sostituire progressivamente negli usi immigrato (Treccani)[1]

Si direbbe che in passato chi si muoveva, per le più diverse ragioni, da un paese a un altro avesse una identità più definita: l’emigrato/immigrato aveva una nazionalità e una destinazione, ovvero, agli occhi dei paesi di destinazione, una provenienza e uno scopo. Oggi invece il migrante sembra avere contorni più sfumati e indistinti. Non a caso si parla di migranti per le persone che provengono da un altrettanto indistinto “sud” del mondo, che si fa in genere coincidere con il continente africano, ma si continuano a definire emigrati/immigrati i cittadini del “nord” del mondo che vanno a risiedere in un paese diverso da quello di nascita.

Allo stesso modo, e per le stesse ragioni, “migrante” riesce quindi a significare molto bene lo stato di indeterminatezza esistenziale, e pratica, di chi lascia il suo mondo per il nostro, fiducioso che il mondo sia uno e basta.

Ancora Treccani ci viene a supporto:

migrante sembra adattarsi meglio alla definizione di una persona che passa da un Paese all’altro (spesso la catena include più tappe) alla ricerca di una sistemazione stabile, che spesso non viene raggiunta. In tal senso, il senso di durata espresso dal participio presente che sta alla base del sostantivo viene sottolineato: il migrante sembra sottoposto a una perpetua migrazione, un continuo spostamento senza requie e senza un approdo definitivo.[1]

Possiamo poi distinguere fra un piano individuale e uno collettivo nell’uso linguistico. Fino a che si trovano su un barcone, in un centro di accoglienza, in un campo profughi, in un lager libico, parliamo di migranti; ma quando fortuna vuole che trovino una sistemazione stabile, un lavoro, una casa, una individualità, ecco che  il participio si fa passato, abbandonando il senso di durata del presente per quello di stabilità suo proprio. E noi ricominciamo a parlare di immigrati. La prevalenza d’uso di migrante, quindi, ci racconta di una persona di cui non sappiamo nulla: né della sua provenienza, né della sua destinazione, né tantomeno della sua identità (che pure ha, ed è forte, come tutte le identità). E questo forse ha fornito l’alibi per ignorarlo, o per considerarlo di nessuna importanza, o per il fastidio provato a causa della sua sola presenza, relegandolo ad essere un fantasma (di fatto, ma prima da un punto di vista di percezione e di significato).

I media difficilmente danno spazio alle singole storie, e questo porta a un narrazione sempre più generica e appiattente che oltre ad aggravare la sofferenza identitaria di chi è emigrato gli rende anche più difficile esprimere istanze di cittadinanza (ancorché provvisoria) attiva. Da lì a costruire una narrazione negativa che lo descriva come una pericolosa minaccia aliena, facendo leva sull’istinto per cui tutto ciò che è “diverso” ma comunque abituale nel panorama quotidiano sia in qualche modo fonte di un sentimento di angoscia, come ci insegna Freud, il passo è breve. Che questa narrazione contribuisca a generare un “incattivimento” della pubblica opinione è passo ancora più breve. Ci troviamo così in presenza di un vero e proprio storytelling basato, a volte anche inconsapevolmente, sulla paura irrazionale verso l’ignoto, verso il non conosciuto e quindi “perturbante” (Unheimliche)[2] .

L’utilizzo del termine migrante ha fornito allora un supporto linguistico su cui far sedimentare questa narrazione, un supporto che gli immigrati stessi riconoscono di contribuire ad alimentare non opponendosi, o facendolo blandamente, a stereotipi consolidati nella cultura dei paesi ospitanti. Dal momento in cui gli stereotipi sono però strumenti ampiamente utilizzati per interpretare la realtà, soprattutto quando questa è collocata in quella Uncanny valley[3] così bene descritta dal giapponese Mori, è evidente come la costruzione di stereotipi sbagliati contribuisca a generare una interpretazione faziosa della realtà.

Uscire da questa trappola verbale potrebbe essere un passo, un piccolo passo, verso una nuova consapevolezza diffusa rispetto a un fenomeno, quello del movimento di persone da un luogo all’altro del mondo, che può avere sfaccettature diverse, ma che vede al centro sempre esclusivamente gli individui. E con una nuova consapevolezza anche i giudizi e gli interventi cambiano di conseguenza.

[1] http://www.treccani.it/magazine/lingua_italiana/domande_e_risposte/lessico/lessico_395.html

[2] Das Unheimliche è un aggettivo sostantivato della lingua tedesca, che Freud utilizza   per esprimere una particolare paura che insorge quando una cosa (o una persona,  un fatto o una situazione) viene avvertita come familiare ed estranea allo stesso tempo provocando angoscia e una sgradevole sensazione di confusione ed estraneità. – S. Freud, Il perturbante Pubblicato per la prima volta sulla rivista Imago nel 1919

[3] La Uncanny valley è un’ipotesi che lo studioso di robotica Masahiro Mori ha formulato nel 1970 sulla rivista Energy. La sua ricerca ha analizzato come la sensazione di  familiarità e di piacevolezza che le persone provano in presenza di robot antropomorfi aumenti al crescere della loro somiglianza con la figura umana, fino ad un punto in cui l’estremo realismo produce un brusco calo delle reazioni emotive positive destando sensazioni spiacevoli come repulsione e inquietudine.

*Mauro Baldassarri è autore del volume Monumenti di carta – la fotografia nelle vicende migratorie dei Liguri,Internòs, Chiavari (GE) 2016

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