Forza e debolezza di Cuba sessant’anni dopo la rivoluzione, la resistenza, la nuova Costituzione, il quadro latinoamericano
La forza principale della rivoluzione cubana è stata, soprattutto nel primo decennio, la partecipazione appassionata e libera di una parte grandissima della popolazione alle discussioni sul futuro e sul presente. Ma il secondo fattore è stato l’atteggiamento degli Stati Uniti, che fin dai primi mesi dopo la vittoria dei barbudos hanno manifestato un’ostilità nei confronti di una rivoluzione non importata o ricalcata, cercando di soffocarla cessando di colpo di acquistare lo zucchero, quasi unico prodotto di esportazione dell’isola, bloccando le forniture di petrolio; rifiutando perfino di ricevere alla Casa Bianca Fidel Castro, che si era illuso invece di poter stabilire rapporti paritetici col grande vicino, anche se come molti cubani non aveva dimenticato il tentativo di annettersi l’isola appena liberata, e l’appoggio dato a dittatori come Machado e Batista. La violenza di quell’attacco permise paradossalmente al gruppo dirigente cubano di consolidare i consensi, nonostante diversi suoi errori.
Il pretesto statunitense per quelle misure che avrebbero dovuto soffocare la rivoluzione era un inesistente rapporto con l’URSS (perfino le relazioni diplomatiche sarebbe state ripristinate solo un anno e mezzo dopo l’entrata di Castro all’Avana, e il partito comunista filosovietico non aveva appoggiato la rivoluzione per un lungo periodo, fino a pochi mesi prima della vittoria). L’orgoglio nazionale ha permesso di resistere agli attacchi statunitensi, che nell’aprile 1961 furono anche armati e riforniti da navi ed aerei pirata concessi da Washington, ma anche di poter accettare che l’URSS si sostituisse agli USA come acquirente e fornitore quasi esclusivo, ponendo al tempo stesso argini robusti ai tentativi dei sovietici e dei loro amici locali di riprodurre nell’isola mentalità e organizzazione burocratica del “socialismo reale” (come si autodefiniva il tardo stalinismo). E questo per merito di tutto il gruppo dirigente e non del solo Guevara, come si capisce tenendo conto che le battaglie più significative (quelle contro la “microfrazione” di Aníbal Escalante, il dirigente stalinista che voleva sostituire i dirigenti “piccolo-borghesi” della rivoluzione) si svilupparono tra il 1962 e il 1968, ed ebbero altri momenti di scontro anche successivamente.
Ma, anche se alcuni dirigenti, compreso il Che e lo stesso Fidel, avevano auspicato una diversificazione dei rapporti economici e commerciali con altri paesi, solo un folle avrebbe potuto rinunciare allo stretto rapporto con l’Unione Sovietica che, soprattutto dopo la morte di Guevara e il fallimento dello sforzo volontaristico voluto da Castro per aumentare a dieci milioni di tonnellate lo zucchero prodotto nella Grande Zafra del 1971-1972, cominciò davvero a condizionare Cuba, che attraversò quello che viene ricordato come il “Quinquennio grigio” e che in realtà durò una quindicina di anni.
Di quella fase di conformismo e burocratizzazione rimangono non poche tracce, anche nel rituale delle consultazioni popolari come quella che si è appena conclusa su una nuova costituzione e che sarà confermata il 24 febbraio. Scandalizzerò qualche compagno fideista più che fidelista, ma ho la sensazione che dopo quasi cinquant’anni (escludendo il primo decennio, come dicevo) sia difficile prendere sul serio una consultazione che porta 583 deputati a votare all’unanimità i 229 articoli (più qualche disposizione transitoria, ecc.). Né mi sembra che si possano esaltare come alta e originale forma di democrazia le 135.000 assemblee di base realizzate, con una media di 11 interventi per ciascuna. L’alta affluenza alle consultazioni si spiega col fatto che le assemblee sono fatte nei luoghi di lavoro e di studio, ed è praticamente impossibile non partecipare. Il modello era tutt’altro che originale, ed era in vigore in tutto il “socialismo reale”, fino all’ultimo istante. L’ho verificato in occasioni analoghe, “da dentro”, durante lunghi soggiorni a Cuba.
Nel dibattito non c’è stata nessuna sorpresa (ma se ci fosse stata sarebbe stato facile nasconderla perché il dibattito è stato trasmesso solo in differita di alcune ore), tanto meno quella che ha reintrodotto nel testo la parola comunismo, che era sparita dalla bozza iniziale. Ma la fedeltà al comunismo era stata ribadita, sulla carta, in tutte le costituzioni dei paesi del blocco sovietico senza che questa dichiarazione li riparasse dai crolli dell’89…
Inoltre tra le altre novità c’è il riconoscimento della proprietà privata e della necessità degli investimenti privati, riconoscimento che non significa molto perché di attività private Cuba è piena da venticinque anni, ma solo in settori collegati direttamente o indirettamente al turismo. Non per scelta di Cuba… Di “investimenti finalizzati al benessere del popolo” poi non se ne vedono. A chi dice che Cuba avrebbe bisogno urgente di un Deng Xiaoping per emulare la Cina, evidentemente sfugge che la differenza di interventi di capitali stranieri si deve soprattutto alle diverse dimensioni tra il mercato cinese e quello cubano. In una cosa sola l’esempio cinese è stato seguito: nel ribadire che i mezzi di comunicazione fondamentali non possono diventare proprietà di altri che non sia quella di tutto il popolo (in altre parole: il monopolio del governo non si tocca…).
È stato osservato da più parti che ha pesato molto in certe formulazioni la lobby conservatrice, sfoltitasi per ragioni anagrafiche ma in grado di controllare ancora l’Ufficio Politico del partito, di cui è stata ribadita la funzione di guida, pretesa d’ufficio. Forse aspettando qualche altra dipartita è stato cancellato per il momento l’articolo che apriva le porte a un riconoscimento del matrimonio tra persone dello stesso sesso, ma rinviando la decisione a una nuova discussione da tenersi tra due anni su un nuovo Codice di Famiglia da approvare con specifico referendum. Naturalmente è stato fatto per evitare che il paese fosse coinvolto oggi in un conflitto tra la comunità LGTBI e le chiese cattolica ed evangeliche…
Ma è difficile che questa costituzione susciti speranze o paure. Avrà poche ripercussioni sulla vita dei “cubani comuni” (letteralmente “appiedati”, cubanos de a pié) come è accaduto in passato con altre consultazioni; ad esempio nel 2011 in quella sui Lineamientos per il VI Congresso, quando il “rinnovatore” Raúl Castro era già alla testa del partito. Nel 2016 si sarebbe constatato che solo il 21 % di quei punti era stato realizzato. E questo vale per tante altre solenni enunciazioni che non hanno visto una concretizzazione.
I problemi più gravi di Cuba sono stati appena sfiorati in questa discussione troppo pilotata. Prima di tutto la difficoltà di risolvere il problema del superamento della doppia moneta, più volte promesso, o quello della scarsa produttività nelle campagne per le ambiguità nelle concessioni di terre incolte. Ma soprattutto pesano le conseguenze di una politica internazionale che sconta gli errori di miopia rispetto alle scelte dei principali alleati. Cuba paga oggi non solo le conseguenze del tracollo dell’economia di un paese ricco ma mal guidato come il Venezuela, che ha dovuto tagliare le forniture all’isola, ma gli effetti diretti del crollo del lulismo in Brasile: i capitalisti brasiliani più potenti (che si erano recati spesso a Cuba accompagnati da Lula) si erano impegnati a fondo in varie iniziative discutibili come la zona franca di Mariel, che avrebbe dovuto rappresentare una base d’appoggio per fantomatiche correnti di traffico grazie al nuovo canale sponsorizzato da un’impresa cinese in Nicaragua. Che faranno ora, abituati come sono a dipendere dal proprio governo?
Quanto al Nicaragua, l’accelerazione della crisi di governo in questo paese, con le dimissioni di un fedelissimo di Daniel Ortega, Rafael Solis, già testimone delle nozze con l’anima nera Rosario Murillo, rende ancora più imbarazzante la difesa incondizionata di un regime marcio, anche se alcuni suoi dirigenti appartenevano un tempo alla sinistra rivoluzionaria…
Ma anche il resto del continente non se la passa meglio. L’Argentina aveva un’influenza minore di Brasile e Venezuela su Cuba, ma comunque il cambio che ha ridimensionato pesantemente l’ambiguo surrogato di sinistra che l’aveva governata per anni aumenta l’isolamento politico se non economico dell’isola caraibica. Ovviamente la svolta nel Brasile, il più grande paese dell’America Latina, è la novità più inquietante. Il successo di Bolsonaro potrà avere ripercussioni su Cuba non solo dirette (con l’espulsione dei medici cubani o la pretesa che questi non inviino in patria parte dei loro compensi) ma influendo su tutto il continente. Tanto più che uno dei paesi considerati “progressisti”, l’Ecuador, ha già cambiato campo senza bisogno di elezioni, e l’unico altro alleato rimasto, la Bolivia, ha collaborato con il “fratello Bolsonaro” (parole di Evo Morales) nello show della “cattura” di Cesare Battisti, facendo presagire un futuro non esattamente di opposizione all’orrido regime brasiliano e ai suoi progetti di egemonia continentale. Né si può sperare molto dal nuovo presidente del Messico, AMLO, di cui ha parlato Aldo Zanchetta su questo sito Messico: Venticinque anni dall’insurrezione zapatista spiegando perché non può essere considerato di sinistra. Inoltre qualsiasi intesa con movimenti e partiti di opposizione in altri paesi latinoamericani sarà resa sempre più difficile dalla difesa cieca degli indifendibili Ortega e Maduro, che accetta la loro tesi che riduce il dissenso interno e la crisi economica a mera conseguenza di un attacco imperialista.
Un attacco che c’è davvero, ma c’era anche in altri periodi, e comunque non dovrebbe giustificare la repressione violenta di ogni dissenso. L’offensiva USA, c’è, ma è normale, non è una novità, era assurdo pensare che un Obama cambiasse segno alla politica degli Stati Uniti. Trump parla molto e spesso deve rimangiarsi quel che ha detto, ma la politica internazionale non la può fare da solo. Era però prevedibile (e fu previsto) che la distensione con Cuba accettata da Obama avesse scopi prevalentemente tattici (aumento della penetrazione di capitali e uomini nell’isola) all’interno di un antagonismo strategico costante.
I guai di Cuba, come sempre, dipendono in gran parte da fattori oggettivi prima e più che da scelte sbagliate del suo gruppo dirigente. Come ricordano spesso i cubani, l’isola è troppo lontana da Dio e troppo vicina agli Stati Uniti. Per sessant’anni Cuba ce l’ha fatta a resistere, senza diventare una specie di feudo sovietico, grazie al grande orgoglio nazionale del suo popolo, e grazie alla enorme forza morale di una rivoluzione originale e non ricalcata su dubbi modelli. Nonostante molte rigidità burocratiche e moltissimi errori fatti dal suo gruppo dirigente, non è stata piegata. Ma non è possibile pretendere che il miracolo si ripeta in eterno, in assenza di una ripresa delle caratteristiche originali della sua rivoluzione. Ci sono settori della burocrazia che si illudono di poter imitare la Cina, che per giunta viene considerata incredibilmente ancora una variante di socialismo, e su cui (come sulla Russia) si mantengono speranze infondate.
Tra le caratteristiche originali di questa rivoluzione c’era (ed è sempre rimasta, almeno in un settore dei militanti, anche se ai margini del potere) la scelta di ottenere un consenso non con espedienti burocratici, ma facendo leva sulla forza morale della verità, di una limpidezza e coerenza essenziali per resistere ai rapporti di forza sfavorevoli (penso all’isolamento subito dopo il crollo dell’URSS, e agli insegnanti che avevano letteralmente fame, ma non lasciavano le scuole per darsi ai traffici ormai tollerati dalle autorità nello sfacelo generale).
Quelli che hanno retto meglio, nonostante le privazioni (e rifiutando le tentazioni dei settori che si liberalizzavano), facevano e continuano a fare riferimento a Guevara, non tanto alle sue proposte economiche, che erano giuste ma sarebbero, OGGI, inapplicabili per il consolidamento di uno strato burocratico privilegiato che in forme diverse spera in una restaurazione capitalista, quanto alle sue indicazioni etiche. E delle intuizioni inascoltate di Guevara varrebbe la pena di riparlare in occasione del revival del 1968, che ha già visto una inspiegabile riscoperta acritica del maoismo da parte di non pochi ex sessantottini, evidentemente non troppo turbati dall’approdo attuale della Cina, con i ritratti di Mao dappertutto e una penetrazione da imperialismo classico in suo nome (o in quello di Confucio…) in decine di paesi non solo africani.
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