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Homecronache sociali«Meglio morire che "salvarsi" in un lager in Libia»

«Meglio morire che “salvarsi” in un lager in Libia»

144 migranti riportati in Libia nei centri di detenzione dove, per mesi, hanno subito violenze.  Per le Ong quello che è avvenuto è contro i trattati internazionali

di Frannie Carola Zarca

Dopo ore di attesa 144 persone sono state riportate ieri a Misurata con il Lady Sham, un cargo battente bandiera Sierra Leone. A bordo anche un bambino in gravissime condizioni. Tutto ciò in aperta violazione dei diritti umani e della convenzione di Ginevra. Così in poco più di 48 ore abbiamo assistito alla morte di 117 persone in mare nella zona Sar ed al respingimento nell’inferno libico di cento migranti, soccorsi al largo di Misurata su un barcone in avaria. Due giorni tragici che hanno visto un’ecatombe, quella del 18 gennaio, tra le più gravi dopo il naufragio di Lampedusa del 2013, dove morirono 368 persone. L’Unhcr denuncia che sono stati «violati i trattati. La Libia non è un paese sicuro, le soluzioni vanno trovate a terra e non sulla pelle persone».

Li hanno riportati in Libia dicendo loro che sarebbero andati in Italia ed ora minacciano di uccidersi piuttosto che sbarcare a Misurata e tornare nei centri di detenzione dove, per mesi, hanno subito violenze. I migranti a bordo del cargo Lady Sham che ieri li ha salvati poco prima che il loro gommone affondasse denunciano «l’inganno» e si rifiutano di scendere a terra. Una situazione che non si è ancora sbloccata visto che la nave si trova al largo della città libica. Quello che è accaduto, denuncia intanto l’Unhcr «è contro il diritto internazionale». A riferire cosa sta avvenendo a bordo della Lady Sham è Alarm Phone, la stessa piattaforma che raccoglie le chiamate dai migranti e che ieri ha segnalato la presenza del gommone. «Abbiamo parlato con diverse persone sulla nave – scrive su Twitter – affermano che gli è stato detto che lo sbarco sarebbe avvenuto in Italia e dunque la prospettiva di sbarcare in Libia è uno shock. Siamo molto preoccupati per il loro stato fisico e mentale». La conferma in un altro tweet: «Ci hanno contattato due sopravvissuti dicendo che preferirebbero uccidersi piuttosto che sbarcare».

Parole che non spostano la linea di Matteo Salvini, che già di prima mattina ha diffuso i dati sugli sbarchi: 155 persone arrivate nei primi 20 giorni del 2019 contro le 2.730 dello stesso periodo dell’anno scorso. «Ieri sono stati recuperati dalla Guardia Costiera libica 393 migranti. La collaborazione funziona, gli scafisti, i trafficanti e i mafiosi devono capire che i loro affari sono finiti, meno partenze meno morti, la nostra linea non cambia». Gino Strada attacca il governo «dove la metà sono fascisti e l’altra metà coglioni». «Sui migranti – dice il fondatore di Emergency – il M5s è sulla linea di Salvini, un segnale terribile. La priorità è salvare vite umane». «Evidentemente la fine della mangiatoia dell’immigrazione clandestina li sta facendo impazzire – risponde il vicepremier – possono insultarmi mattina e sera, io non mollo».

Ma le critiche arrivano anche da Oim e Unhcr. «I principi a cui i governi devono attenersi – afferma Carlotta Sami di Unhcr – sono quelli del porto sicuro e dell’intervento in acque internazionali. Se delle persone vengono salvate in acque internazionali, come in questo caso, devono essere portate nel porto sicuro più vicino e la Libia non è un porto sicuro». Il problema dall’estate scorsa ruota sempre attorno allo stesso punto, la dichiarazione dell’area Sar da parte della Libia. Ogni evento che accade in quell’area è formalmente sotto la responsabilità di Tripoli nel momento in cui prende il coordinamento dei soccorsi, come avvenuto ieri. Ma è evidente a tutti che i libici non hanno né i mezzi né le capacità per gestire quella responsabilità. Non solo: l’Europa riconosce l’area Sar libica ma non riconosce il paese come place of safety, vale a dire il porto sicuro dove sbarcare i migranti. Per tentare di migliorare almeno la capacità d’intervento in mare, l’Italia ha approvato a luglio scorso un decreto che prevedeva la cessione gratuita di 12 motovedette, 10 classe 500 della Guardia Costiera e 2 classe Corrubia della Gdf. Le imbarcazioni sarebbero dovute partire entro un mese ma ad oggi sono ancora a Messina, dove si sta completando l’addestramento dei libici. Insomma, prima di maggio nessuna motovedetta verrà consegnata. «Servirebbe che tutti i paesi europei e mediterranei lavorassero per istituire un sistema unico di sbarco e salvataggio immediato. Ma – dice ancora Sami – la volontà politica non c’è».

In questo drammatico e pericoloso scenario i nostri porti continuano ad essere chiusi ed è stato proibito qualsiasi intervento da parte delle ONG o della Guardia costiera italiana. In questo modo i migranti verrano riportati nei centri di detenzione, sottoposti a condizioni disumane, divenendo oggetto di compravendita da parte dei trafficanti. Condizioni degradanti, disumane e pericolose al punto da arrivare a sostenere che è «meglio morire che tornare in Libia», come hanno detto anche i tre sopravvissuti alla strage in mare di due giorni fa. Non è possibile accettare che le uniche alternative da chi fugge da fame, persecuzioni, guerre ecc siano quelle di rischiare la vita o di essere torturato e venduto.

La sparizione forzata delle vittime, ottenuta con la segregazione nei centri di detenzione libici, e la complicità degli attori internazionali che vi hanno accesso, hanno impedito di portare all’attenzione dei Tribunali internazionali le gravi violazioni di diritti umani, in particolare la Convenzione di Ginevra (art. 33) e della Convenzione Europea dei diritti dell’Uomo (art. 3) oltre che delle Convenzioni internazionali di diritto del mare.

E’ solamente grazie alle denunce e le testimonianze raccolte dalle ONG, confermate dal recente rapporto delle Nazioni Unite, che inizia finalmente ad emergere la verità sui gravi abusi commessi ai danni dei migranti, tanto nelle acque internazionali quanto nei centri di detenzione nei quali sono stati riportati. E’ necessario quindi sospendere l’operatività di accordi bilaterali che non garantiscono l’effettivo rispetto dei diritti fondamentali della persona, e ripristinare l’applicazione effettiva della normativa internazionale prevista per le SAR (operazione di ricerca e salvataggio) interrompendo i continui attacchi e tentativi di criminalizzazione le Organizzazioni non governative e gli operatori umanitari impegnati nelle fondamentali operazioni di ricerca, intervento e salvataggio.

La notizia del ritorno in Libia del barcone soccorso al largo di Misurata arriva anche sulla Sea Watch, dove da oltre due giorni 47 persone sono in attesa di indicazioni da parte delle autorità su quale porto raggiungere. «Sono terrorizzati – dicono dall’Ong – non vogliono tornare in Libia». A spaventare, ora, non è solo la possibilità di fare ritorno in Africa, ma anche il mare che continua ad ingrossarsi ora dopo ora. «Le condizioni meteo stanno peggiorando – dicono dalla Sea Watch -, i ragazzi stanno bene ma ora ci preoccupa il meteo». L’imbarcazione resta, pertanto per altre 24 ore al largo di Tripoli, da sola e senza aiuti. Da giorni l’equipaggio tenta di mettersi in contatto con le autorità, senza però ottenere alcuna replica. «Siamo stati rimandati ai libici che però non rispondono – dicono dalla nave che ha tratto in salvo i migranti -, non c’è modo di parlare con loro». E a bordo è rimbalzata anche la notizia della Lady Sham, il cargo che ha riportato a Misurata i 100 migranti in difficoltà. «E’ un altro caso Nivin», spiegano facendo riferimento ai 79 rifugiati che lo scorso novembre si rifiutarono di scendere proprio nello stesso porto libico dover erano stati ricondotti. «Stanno riportando quelle persone all’inferno», dicono attivisti e volontari dell’ong. Un inferno fatto di violenze e abusi che ricordano anche i 47 ragazzi a bordo della Sea Watch, avvolti nelle coperte mentre provano a ripararsi dal freddo. «Non riportateci in Libia», il loro disperato appello mentre il mare comincia a far paura. L’imbarcazione resta ferma e l’equipaggio continua a cercare un contatto per sapere quale sia l’autorità che ha in carico l’operazione. Intanto Open Arms, l’Ong ferma a Barcellona in attesa del via libera per poter riprendere il mare, continua la drammatica conta dei morti nel Mediterraneo. «200 persone sono annegate nei primi 21 giorni del 2019 (140 solo sulla tratta Libia-Italia, ndr). È ufficiale – scrive – la storia ce lo ricorderà e ci indicherà da che parte stavano vittime e carnefici».

Venerdì scorso, ricordiamo, dopo 11 ore di navigazione un barcone ha iniziato ad imbarcare acqua e le persone sono affogate. I naufraghi sono rimasti per oltre tre ore in balia delle acque gelide del Mediterraneo, senza dispositivi di salvataggio e resistendo a condizioni invivibili, con la speranza di vedere arrivare presto i soccorsi. Nella notte l’arrivo di un elicottero della Marina Militare italiana ha tratto in salvo gli unici superstiti, tre persone, due sudanesi e un gambiano, in grave stato di ipotermia. «I tre sopravvissuti arrivati a Lampedusa ci hanno detto che erano in 120 – ha spiegato Flavio Di Giacomo, portavoce dell’Organizzazione internazionale dei migranti (Oim). La Ong tedesca Sea Watch aveva avvistato il gommone durante un volo di ricognizione, dandone comunicazione immediata alla guardia e la disponibilità ad intervenire tempestivamente per salvare i naufraghi. La Guardia Costiera italiana ha girato l’offerta alla Libia, “quale autorità coordinatrice dell’evento”. Oltre a disattendere i trattati internazionali, il ministro dell’interno ha risposto in maniera cinica e indifferente di fronte all’ennesima strage nel Mediterraneo che si poteva e si doveva evitare. «I nostri nipoti ci paragoneranno ai nazisti», dichiara Alex Zanotelli. Anche la Comunità di Sant’Egidio condanna le scelte del governo: «Di fronte all’ennesimo, drammatico naufragio occorre far tacere ogni polemica e mostrare pietà, per un senso di umanità che dovrebbe accomunare tutti – scrive in una nota – è scandaloso litigare, come si è fatto nei giorni scorsi su un piccolo gruppo di persone già salvate ma non sbarcate. L’Ue deve continuare a salvare chi è in pericolo per creare stabilità politica e occupazione nei paesi di provenienza e allestire corridoi umanitari per consentire vie di ingresso regolare in Europa».

Mentre in Italia quindi prevale la linea razzista e xenofoba, totalmente disumana, dei porti chiusi alle ONG e ai migranti, e la Spagna tiene bloccate le imbarcazioni delle principali Ong nei porti, adducendo “motivi di sicurezza”, è agghiacciante che la Libia resti l’unico paese in grado di intervenire per prestare “soccorso”.

 

 

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