“Proletkult”, sul ring installato dai Wu Ming, Bogdanov prende a pugni Lenin e l’Ottobre
La sensazione che ho avuto dopo aver chiuso “Proletkult”, l’ultimo romanzo del collettivo Wu Ming, è stata quella di un’occasione persa. Le premesse per il romanzo da top ten personale c’erano tutte, a partire dall’ambientazione, la Rivoluzione d’Ottobre, il maggiore evento storico del Novecento, incredibile turbina di forze popolari, di entusiasmi proletari globali ma anche di inenarrabili delusioni e tragedie. C’era il personaggio principale, Aleksandr Bogdanov, dirigente bolscevico dimenticato, che avevo incrociato per caso durante gli studi storici a Bologna e che mi era stato subito molto simpatico. Per la sua originalità di pensiero e il suo eclettismo e poi perché – da appassionato di fantascienza – mi ero entusiasmato al suo romanzo “Stella rossa”, che a metà degli anni Novanta era ancora fuori catalogo e si trovava solo nei mercatini.
Infine c’era il fatto che a scriverne non era il solito romanziere colpito da incurabile malinconia per la Rivoluzione di Febbraio o – peggio – uno dei tanti pronti a versare qualche lacrima sui “poveri” Romanov. Dalla sensibilità di Wu Ming ci si può aspettare – oltre che buona letteratura – complessità di analisi e una scrittura che rifugge dalle semplificazioni.
Sono rimasto deluso: “Proletkult” è un romanzo a tesi, nel quale questa è celata sotto un intreccio poco convincente, dove la fantascienza sembra più un pretesto che un registro capace di inserirsi efficacemente nella narrazione. La tesi che Wu Ming propone nel corso di tutto il romanzo è costruita su alcune opposizioni che tengono prigioniero l’Ottobre in una rappresentazione manichea. La prima e più importante è quella tra Lenin e Bogdanov da cui discendono le altre di cui è costellato il romanzo: dogmatico/eterodosso; autoritario/libertario, ecc. Questa eccessiva semplificazione si ripercuote su tutta la narrazione, sui personaggi e sulle ambientazione del romanzo.
Una deformazione ottica
Il fuoco dell’azione in “Proletkult” è collocato essenzialmente in due momenti: il 1908, quando Bogdanov decide di dare vita a una scuola di formazione per proletari a Capri; e il 1927, anno nel quale ritroviamo l’ormai ex dirigente bolscevico al lavoro nel suo istituto ematologico mentre Stalin sta consolidando il suo potere dando mazzate a destra e a manca e smembrando l’Opposizione di sinistra.
In mezzo, niente. Della rivoluzione d’Ottobre non si parla, se non attraverso l’immaginazione di chi la sta preparando nel primo decennio del Novecento, subito dopo la sconfitta del 1905 e di chi ne sta subendo l’involuzione nel corso dei durissimi anni Venti.
E’ sicuramente una scelta quella di non parlare del 1917, ma è una scelta che ha conseguenze importanti: di fatto dell’entusiasmo sollevato dalla rivoluzione nel libro non c’è niente. Al contrario: il prisma attraverso il quale quell’evento viene raccontato è quello del conflitto pre-rivoluzionario tra Bogdanov e Lenin e poi quello della burocratizzazione dopo la morte di quest’ultimo. Il risultato è una deformazione ottica che impedisce di cogliere l’Ottobre in tutte le sue sfumature e in tutta la sua complessità. “Gioia e rivoluzione”, cantavano gli Area, ma c’è poca gioia in “Proletkult”.
Bogdanoviani senza rivoluzione
Al centro della vicenda raccontata c’è Aleksandr Bogdanov: egli è di fatto l’eroe del romanzo, un eroe visionario prima della rivoluzione; un eroe deluso, che sceglie volontariamente una specie di esilio politico nel 1927. E’ lui a farci da guida in quell’epoca di sconvolgimenti storici e, nonostante ci provino, i Wu Ming non riescono a mantenere una distanza critica dal loro personaggio, al quale affidano in ultima analisi il giudizio sulla rivoluzione e le sue conseguenze.
Una scelta questa piuttosto problematica perché – con tutta la simpatia che si può provare per lui – l’autore di “Stella rossa” la rivoluzione non l’ha voluta e anzi si è opposto alla presa del potere da parte dei bolscevichi nel 1917.
Il suo giudizio sugli eventi dell’Ottobre è quindi perlomeno questionabile. Invece Bogdanov viene assurto a giudice della rivoluzione, delle sue conseguenze e dei suoi prodromi. Addirittura, nella parte dedicata alla scuola di Capri, il personaggio-Bogdanov viene costruito dagli autori in opposizione a Lenin, il quale viene descritto come dogmatico, privo di flessibilità mentale, autoritario. Bogdanov invece viene presentato come l’eroe eterodosso, che al paternalismo leninista oppone la capacità di parlare da pari a pari con i proletari. Insomma, egli avrebbe potuto essere – è quanto emerge dal libro di Wu Ming – un’alternativa libertaria a Lenin e al suo pugno di ferro sul partito.
Si tratta naturalmente di una opposizione storicamente priva di senso: se è vero che Lenin ha ingiustamente attaccato Bogdanov dal punto di vista filosofico, da una parte abbiamo però un dirigente politico che riesce a inserirsi nelle dinamiche storiche e a raccogliere sotto le bandiere della rivoluzione il proletariato russo; dall’altra un intellettuale che sancisce la sua inadeguatezza ai tempi contestando aspramente le “Tesi d’aprile” e non partecipando alla rivoluzione.
Stalin prima di Stalin? Lenin of course
Questa opposizione tra Bogdanov e Lenin ha anche un’altra conseguenza, sottile ma altrettanto pericolosa: quella di retrodatare il germe dell’autoritarismo addirittura al leninismo degli anni Dieci del Novecento. Insomma, in Lenin c’è già Stalin, sembra di capire dalle parole di Bogdanov. E può anche darsi. Il fatto è però che nel leninismo c’era anche il contrario di questo: la visione di una società di eguali, basata sulla redistribuzione della proprietà, sull’eguaglianza di genere, in cui lo Stato avrebbe lasciato il posto a libere comunità di produttori. In mezzo, la storia: la guerra mondiale, la guerra civile, il fallimento della rivoluzione in Europa. Tutto cancellato con un tratto di spugna da un intellettuale deluso che si rifiuta di prendere posizione di fronte all’involuzione di una rivoluzione che non ha voluto.
Una delle frasi più ciniche messe in bocca a Bogdanov da Wu Ming è quella che si trova nel dialogo tra lui e Dmitriev, un membro dell’Opposizione di sinistra che sta cercando di coinvolgerlo nella sua battaglia:
“Adesso Trockij, Kamenev e Zinov’ev denunciano lo strapotere del partito sui soviet, ma sono stati loro a costruire il partito. Hanno ottenuto esattamente ciò per cui hanno lavorato: una gerarchia di militanti di professione, un partito-esercito, un ceto dirigente autoritario e conservatore. Il fatto che oggi cadano vittime della loro creatura è l’ironia della Storia”.
Qui Bogdanov si erge ancora – sotto la penna di Wu Ming – a giudice ultimo della rivoluzione che non ha fatto, indicando come inevitabile e prevedibile la sua burocratizzazione e nello stesso tempo condannando coloro che vi si stanno opponendo a rischio della loro stessa vita. Mentre leggevo questo passaggio pensavo alla ben diversa complessità, alla disperazione, al senso di tragedia che emerge dalla lettura del romanzo “Se è mezzanotte nel secolo” di Victor Serge, uno che non ha mai smesso di condannare lo stalinismo ma che la rivoluzione l’ha fatta.
Tectologia per tutti
“Proletkult” ha sicuramente il merito di aver riportato al centro della scena un dirigente bolscevico dimenticato; il suo pensiero subisce però una torsione nel romanzo che ne semplifica all’eccesso i contenuti. La sua tectologia, la nuova disciplina dell’organizzazione che Bogdanov mette a punto e che è stata riscoperta negli ultimi vent’anni come progenitrice della cibernetica, è posta in contrapposizione al pensiero – descritto come dogmatico e autoritario – di Lenin.
Se è vero che l’attacco di quest’ultimo alla filosofia di Bogdanov affidato a “Materialismo ed empiriocriticismo” fu frutto di una fatale incomprensione, è invece sbagliato proporla come possibile alternativa al leninismo.
Eppure ai lettori vengono proposti nel corso di tutto il romanzo brevi spunti di tectologia, un piccolo breviario costruito ad hoc per mostrare l’originalità di una dottrina che risulta tanto più attraente al lettore quanto più è deprimente la descrizione della degenerazione burocratica del partito. Tutto sembra contrapporre il pensiero di Lenin a quello di Bogdanov, il quale assume nel romanzo la statura di eroe anti-dogmatico contrapposto al grezzo materialismo leninista.
Ma anche qui l’opposizione si rivela troppo semplicistica: considerare una disciplina come la tectologia – che ambisce ad essere la scienza che le raccoglie tutte entro di sé, che applica all’organizzazione umana i principi di quella naturale – come meno autoritaria e più dialettica del leninismo è una forzatura ingiustificata. Scrive a questo proposito Tiziano Bagarolo:
“Ma lascia perplessi la sistematica riduzione dei problemi etico-politici a problemi tecnico-organizzativi; e ciò fa sorgere delle domande sull’idea di democrazia socialista che egli [Bogdanov] ha in mente.”
A questo si aggiunga, per rendere ancora più complesso il giudizio storico sulle idee di Bogdanov che molte di esse verranno in seguito riprese da Stalin e piegate agli interessi della burocrazia sovietica: pensiamo al “realismo socialista” e all’idea di “cultura proletaria”. Ma questo non basta per dire che nel “bogdanovismo” ci fossero già i germi dello stalinismo…
Una critica troppo ideologica?
Ho avuto modo di raccogliere da amici alcune critiche alle mie argomentazioni: la prima è che Bogdanov nel romanzo non sarebbe un personaggio positivo ma uno sconfitto e che questa sua posizione, ai margini della storia, ambigua, sarebbe evidente ai lettori, che quindi non aderirebbero al suo giudizio sulla Rivoluzione d’Ottobre.
Il fatto è però che le riflessioni di Bogdanov sono al centro della scena e strutturano il giudizio sul 1917; riflessioni nelle quali i Wu Ming ci spingono ad identificarci senza proporci un’alternativa, senza in fondo prendere le distanze dal loro personaggio. Il suo dolente discorso di intellettuale che decide di stare alla finestra mentre fuori passa la storia ci trascina in un vortice di fatalismo che è l’opposto di quanto la rivoluzione ha significato per milioni di persone.
La seconda critica che mi è stata rivolta è quella di aver letto il romanzo in modo eccessivamente ideologico: un romanzo non è un saggio e al suo interno si possono dipingere anche posizioni che non si condividono; altri punti di vista rispetto al proprio.
Ma è proprio quello che manca a “Proletkult”: punti di vista differenti e credibili rispetto a quello di Bogdanov, incarnati in personaggi a più dimensioni, che restituiscano la complessità di un momento storico ridotto nel romanzo a un bianco e nero privo di sfumature.
E poi mi pare evidente che se si scrive un romanzo che parla di bolscevichi, del prima e del dopo l’Ottobre, questo non potrà che essere un romanzo politico. La chiave di lettura ideologica è dunque non solo legittima, ma anche necessaria. Soprattutto perché essa viene proposta insistentemente dagli stessi autori che, come abbiamo visto, usano il proprio personaggio principale per dare il loro giudizio sulla rivoluzione. Un romanzo a tesi non va forse criticato con le armi dell’ideologia?
E la dialettica delle emozioni?
La struttura binaria del romanzo non poteva essere senza conseguenze sulla complessità dei personaggi che lo abitano: essi risultano infatti privi di spessore (a partire dallo stesso Bogdanov), di profondità psicologica e sono fermi in una staticità che ne blocca l’evoluzione nel corso del racconto. Non c’è dialettica delle emozioni in “Proletkult”, così come non c’è dialettica dal punto di vista ideologico. E se non ho parlato fin qui della parte “fantascientifica” del romanzo è per una buona ragione: il racconto delle avventure di Denni, l’extraterrestre arrivata da Nacun, è per lo più ininfluente sullo sviluppo della narrazione. Peccato, perché gli spunti che si potevano trarre dai romanzi fantascientifici di Bogdanov erano numerosi, mentre alla fine quello che emerge è che nemmeno la rivoluzione fatta su Nacun ha prodotto qualcosa di veramente condivisibile.
Sul pianeta si discute infatti se sia il caso di invadere la Terra per spogliarla delle sue risorse, una specie di imperialismo socialista che prefigura quello sovietico del secondo dopoguerra. Ma almeno Denni ci prova a lottare per un socialismo vero, basato sulla solidarietà interplanetaria e contro il socialismo su un pianeta solo. Il Bogdanov dei Wu Ming no.
[…] Mattia Pelli su Popoff: Proletkult: il romanzo senza rivoluzione. […]