Cucchi, la procura di Roma ha chiesto formalmente il processo per la catena di comando dei carabinieri che ha depistato le indagini sulla morte di Stefano
Chiesto formalmente un processo per la catena di comando dei carabinieri che ha depistato le indagini per accertare le cause sulla morte di Stefano Cucchi. A 29 giorni dalla chiusura dell’inchiesta il pm Giovanni Musarò e il procuratore capo Giuseppe Pignatone hanno chiesto il rinvio a giudizio per otto militari dell’Arma tra cui anche ufficiali che avrebbero orchestrato il tentativo di insabbiamento della verità sulla morte del ragazzo arrestato per possesso di sostanze. Sarebbero loro ad aver predisposto la «partita con le carte truccate», come ha detto Musarò. I reati contestati, a seconda delle posizioni, sono falso, omessa denuncia, favoreggiamento e calunnia. Ad attendere la fissazione dell’udienza preliminare ci sono il generale Alessandro Casarsa, all’epoca dei fatti capo del Gruppo Roma, il colonnello Lorenzo Sabatino, ex capo del nucleo operativo di Roma, Francesco Cavallo, tenente colonnello capoufficio del comando del Gruppo Roma; Luciano Soligo, già comandante della Compagnia Montesacro; Massiliano Colombo Labriola, ex comandante della stazione di Tor Sapienza; Francesco Di Sano, all’epoca in servizio a Tor Sapienza; Tiziano Testarmata, già comandante della quarta sezione del Nucleo investigativo e il carabiniere Luca De Cianni. Nel procedimento l’Arma dei carabinieri si costituirà parte lesa, così come annunciato in una lettera affidata ai familiari di Stefano Cucchi dal comandante generale Giovanni Nistri l’11 marzo scorso. Sarà il quarto processo sulla vicenda Cucchi: dopo quello a carico di alcuni agenti della penitenziaria (tutti assolti), è in corso quello di secondo grado ai medici dell’ospedale Pertini e quello davanti alla prima Corte d’Assise che vede imputati cinque carabinieri, tre dei quali accusati di omicidio preterintenzionale. Proprio nel corso di questo procedimento è emersa, grazie anche al racconto di uno degli imputati, il carabiniere Francesco Tedesco, la verità relativa al pestaggio di Cucchi e alla falsificazione di una serie di documenti sullo stato di salute del geometra dopo l’arresto. Per l’accusa i depistaggi partirono da Casarsa, all’epoca numero uno del Gruppo della Capitale, e a cascata furono messi in atto dagli altri secondo i vari ruoli di competenza. Per i pm sei indagati «avrebbero attestato il falso in una annotazione di servizio, datata 26 ottobre 2009, relativamente alle condizioni di salute di Cucchi», arrestato dai carabinieri di Roma Appia e portato nelle celle di sicurezza di Tor Sapienza, tra il 15 e il 16 ottobre del 2009. Per i magistrati di piazzale Clodio il falso fu confezionato «con l’aggravante di volere procurare l’impunità dei carabinieri della stazione Appia responsabili di avere cagionato a Cucchi le lesioni che nei giorni successivi gli determinarono il decesso». In una seconda nota, con la data truccata del 26 ottobre, si attestava falsamente che «Cucchi riferiva di essere dolorante alle ossa sia per la temperatura fredda/umida che per la rigidità della tavola del letto…, dolenzia accusata per la sua accentuata magrezzà omettendo ogni riferimento alle difficoltà di deambulare accusate da Cucchi». Dunque dolori causati dal letto, dal freddo e dalla magrezza, secondo i carabinieri. Le accuse tirano in ballo anche il colonnello Sabatino che, delegato dalla Procura nel novembre del 2015 ad acquisire una serie di documenti, pur avendo accertato che erano false le due annotazioni sullo stato di salute di Cucchi dell’ottobre del 2009 «omise di presentare una denuncia».
Dagli Acip, avvisi di chiusura indagine, si ricaca che cinque di loro, secondo l’ipotesi, «in concorso attestavano il falso in un’annotazione di servizio sottoscritta da Di Sano», tre giorni dopo la morte di Cucchi in un reparto penitenziario del Pertini. Tutto ciò per minimizzare le condizioni di salute di Stefano che, dopo il pestaggio, era stato parcheggiato a Tor Sapienza in attesa dell’udienza di convalida dell’indomani. Si tratta dell’ormai famosa annotazione ritoccata dopo una prima versione in cui Di Sano aveva dato atto delle precarie condizioni di salute della persona arrestata, «riferiva di avere dolori al costato e tremore dovuto al freddo e di non poter camminare, veniva comunque aiutato dal personale della PMZ a salire le scale». L’intera scala gerarchica, fino al comandante di Gruppo, avrebbero fatto in modo che quella formulazione venisse tramutata in una più tranquillizzante, ma falsa, in cui si leggeva «il Cucchi … riferiva di essere dolorante alle ossa sia per la temperatura freddo/umida che per la rigidità della tavola del letto priva di materasso e cuscino ove comunque aveva dormito per poco tempo, dolenzia accusata anche per la sua accentuata magrezza». Non solo viene omesso qualsiasi riferimento alla difficoltà di Cucchi a camminare ma si introduce quello che sarà il cavallo di battaglia delle difese, la magrezza, per dimostrare che Stefano non sarebbe morto per le conseguenze delle percosse ma per la miscela tra condizioni di salute e stile di vita.
Ancora: Casarsa, Cavallo, Soligo e Colombo Labriola avrebbero falsificato anche l’annotazione di servizio dell’altro piantone, il carabiniere Gianluca Colicchio che però non la volle firmare e non ha riconosciuto come sua la sigla in calce all’atto. «Il Cucchi suonava al campanello di servizio della cella e dichiarava di avere forti dolori al capo, giramenti di testa, tremore e di soffrire pure di epilessia» diventava così che il Cucchi manifestava «uno stato di malessere generale, verosimilmente attribuito al suo stato di tossicodipendenza e lamentandosi della scomodità della branda d’acciaio» facendo magicamente sparire ogni considerazione legata ai dolori.
Sabatino, colonnello, comandante operativo dei carabinieri di Roma e delegato del comandante provinciale all’acquisizione di una serie di atti sugli adempimenti successivi all’arresto, e il capitano Testarmata, comandante della IV sezione del nucleo investigativo dei Cc, delegato di Sabatino, s’erano accorti che le deposizioni erano farlocche, “ideologicamente false”, ma fecero gli indiani, secondo l’ipotesi del pm Musarò, guardandosi bene dal denunciare la faccenda. Testarmata si sarebbe anche accorto che il registro del fotosegnalamento della compagnia Roma Casilina era stato sbianchettato ma lo lasciò lì nonostante fosse stato sollecitato ripetutamente a prelevarlo da due ufficiali, il maggiore Grimaldi e il tenente Beringheli, uno che comandava la compagnia, l’altro il nucleo operativo della stessa che avevano evidenziato la necessità di eseguire accertamenti tecnici sull’originale del predetto registro per individuare il passaggio di Cucchi nella sala Spis, quella del fotosegnalamento. Anche in questo caso Testarmata si sarebbe fatto gli affari suoi sulla scoperta dello sbianchettamento sul nome di Stefano. Condotte, «poste in essere con più azioni esecutive di un medesimo disegno criminoso» che aiutavano a «eludere le investigazione delle autorità» «i carabinieri appartenenti al comando stazione di Roma Appia che erano responsabili di avere cagionato a Stefano Cucchi, nella notte tra il 15 e il 16 ottobre 2009, le lesioni che nei giorni successivi ne determinavano il decesso».
Infine Luca De Cianni, redigendo un’annotazione di polizia giudiziaria in merito a un incontro con il carabiniere Casamassima, nel maggio 2015, attestava falsamente, come si legge sull’Acip, l’avviso di conclusione indagini preliminari, gli aveva riferito che alcuni carabinieri appartenenti alla stazione Appia avevano «colpito con schiaffi Stefano Cucchi ma che non si trattava di un pestaggio», che Cucchi s’era procurato lesioni più gravi con gesti di autolesionismo, «battendo più volte il viso a terra e al muro in cella», che Casamassima avrebbe chiesto soldi a Ilaria Cucchi in cambio di aver fornito «dichiarazioni gradite». Ora gli indagati hanno venti giorni per eventuali atti o memorie, depositate l’esito di indagini difensive, chiedere di essere interrogati o depositare dichiarazioni. Intanto il processo per l’omicidio riprenderà il prossimo 27 marzo. Riccardo Casamassima, a rischio di mobbing, e la moglie, Maria Rosati, entrambi carabinieri, con le loro dichiarazioni hanno permesso la riapertura del processo.