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Caso Scaroni, due mesi in coma ma i celerini la fanno franca

Caso Scaroni, assolti in appello i poliziotti che caricarono a freddo gli ultras del Brescia alla stazione di Verona rendendo invalido al 100% Paolo Scaroni

Tutti assolti i celerini anche se Paolo Scaroni è restato in coma per due mesi e da 14 anni è invalido al cento per cento. Era il 24 settembre 2005 e poche ore dopo un altro branco di persone in divisa ammazzò un diciottenne che tornava a casa dopo una serata. Scaroni e Aldrovandi, nelle stesse ore nel posto sbagliato, in balìa del pezzo sbagliato dello Stato, in città non tanto lontane, Ferrara e Verona, in un Paese intossicato dalle politiche sicuritarie.

«Insufficienza di prove? – si domanda con sconcerto Acad, l’associazione contro gli abusi in divisa  – Non basta un uomo ridotto in fin di vita, i filmati spariti e manomessi, le testimonianze di chi era lì quel giorno e dello stesso Paolo Scaroni che ricorda i manganelli usati al contrario che si abbattevano con una violenza inaudita su di lui. Non basta un cranio fracassato e le manganellate sul cervello di Paolo, i mesi in coma. Non basta una vita rovinata da un’invalidità al 100%.

Ingiustizia è fatta, ancora una volta, nel nome dell’impunità per la violenza delle divise.

NUMERI INDENTIFICATIVI SUBITO (questo lo lasciamo tutto maiuscolo, ndr)».

«L’esito del processo d’appello per il pestaggio di Paolo Scaroni, il tifoso del Brescia chiama ancora una volta in causa l’assenza di codici identificativi per le forze di polizia», reagisce Amnesty International alla notizia dell’esito del processo che, già in primo grado, a otto anni di distanza dall’accaduto, aveva fatto emergere come l’assenza di tale codice alfanumerico (ce l’hanno perfino i celerini di Erdogan) avesse reso impossibile identificare i responsabili che avevano agito a volto coperto. Come a Genova, come ogni volta che la loro violenza deve sfuggire al vaglio di quella giustizia che, sulla carta, hanno giurato di servire. «Il processo -ricorda Amnesty- era terminato con otto assoluzioni, una per non aver commesso il fatto e sette per insufficienza di prove». Amnesty International Italia «sta portando avanti una campagna per l’introduzione dei codici identificativi per le forze di polizia in servizio di ordine pubblico». La famosa sigla si dimentica che non è una battaglia solo sua e che il suo atteggiamento morbido sulla scaldalosa legge “per la tortura”, stigmatizzata dalla Corte europea di giustizia, ne ha minato fortemente la capacità di incidere e la credibilità verso gli ampi settori sociali che si battono contro gli abusi e contro la repressione.

Scaroni è scosso dall’ascolto del dispositivo: «Questa volta credevo di poter vedere condannati quelli che mi hanno rovinato la vita. Sono schifato». La Corte d’Appello di Venezia ha pronunciato una sentenza d’assoluzione dopo che il pg in aula aveva chiesto le condanne a sette anni per tutti gli agenti accusati. «È stata fatta una ricostruzione perfetta di quanto accaduto, ma non è bastato per arrivare ad una condanna che renderebbe giustizia». Scaroni si affida ora alla Procura generale di Venezia. «Se fa ricorso in Cassazione io ci sono e lo spero nel frattempo – aggiunge – continuo la mia battaglia perché gli agenti di polizia abbiano il numero identificativo sul casco così da evitare un nuovo caso come il mio». Scaroni, ultras del Brescia, si trovava sui marciapiedi dei binari della stazione di Verona, credeva di poter riprendere il treno dopo aver acquistato patatine o qualcosa di simile ma scattò, a freddo, senza alcuna ragione, una carica del reparto Mobile di Bologna, uno dei reparti che hanno collezionato il maggior numero di menzioni per la discutibile capacità di funzionari e truppa di intervenire in branco, tanti contro uno o contro pochi, siano tifosi, studenti o pacifisti. Scaroni rimase in coma diversi mesi e lo Stato lo ha risarcito con un milione e 400 mila euro. Il sostituto procuratore generale aveva chiesto la condanna a sette anni, ma la Corte ha assolto gli agenti per insufficienza di prove. Già la sentenza di primo grado, pur stabilendo che le lesioni erano state riportate dalla carica della Polizia, non era stato in grado di stabilire con certezza se a sferrare i colpi con il manganello impugnato al contrario fossero stati realmente gli agenti a processo. Così anche in appello. E’ almeno dall’indomani delle mattanze di Genova 2001 che una coalizione di associazioni e comitati di vittime (a partire dalla famiglia Giuliani, dai movimenti no global da cui sono scaturite esperienze come Acad, Osservatorio repressione e Vlad) reclama la misura elementare di un codice alfanumerico che consenta agli inquirenti di identificare i membri dei reparti che operano travisati in ordine pubblico. La reazione dei sindacati di polizia è pressoché unanime e già allora si scoprì che la stagione della democratizzazione della polizia era un lontano ricordo, forse una suggestione. Ora specie le sigle più a destra, che hanno trovato in Lega e Fratelli d’Italia ombrelli politici piuttosto efficaci, possono dormire sonni tranquilli anche grazie agli spazi di discrezionalità che i decreti Salvini garantiscono loro dentro un senso comune sempre più imbarbarito.

Questa sentenza, così come il linciaggio, quattro contro uno, di un giornalista genovese da parte dei soliti travisati indicando che la campagna deve continuare, a fianco alle vittime, per la libertà di movimento, per il diritto al dissenso, per l’affidabilità democratica, la riforma dei loro metodi di addestramento, dei corpi militari e di pubblica sicurezza.

 

 

 

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