50 anni fa gli scontri del 3 luglio, a Torino, segnarono la ripresa della lotta operaia. Era l’inizio dell’autunno caldo. La testimonianza di un protagonista
Giovedì 3 luglio Torino ha vissuto una grande giornata di lotta. Lo sciopero generale, indetto da tutte le centrali sindacali contro la situazione intollerabile di rincaro degli affitti e di tutti i generi di prima necessità, era perfettamente riuscito, con percentuali altissime in tutte le industrie e la paralisi totale dei servizi pubblici di trasporto. Al centro di questa generale manifestazione di protesta la Fiat, i cui 150.000 dipendenti hanno dato alla riuscita plebiscitaria dello sciopero un contributo decisivo, ben coscienti che proprio nella politica che la direzione del monopolio italiano dell’automobile sta realizzando – varie decine di migliaia di nuove assunzioni, tutte insieme in brevissimo tempo, con la conseguente fortissima ripresa dell’immigrazione, senza che nulla sia stato preparato per accogliere tanti nuovi cittadini – risiede la radice specifica del fatto che in particolare a Torino e nella cintura tutti i prezzi sono balzati alle stelle.
Ma tra i dipendenti della Fiat – che da circa due mesi sono in agitazione per la insostenibile situazione in cui tanti di loro si trovano, dentro e fuori la fabbrica, specie i nuovi assunti – si era andata facendo strada la convinzione che uno sciopero di protesta di 24 ore era ben poca cosa di fronte alla necessità di lottare per cambiare radicalmente la loro condizione: e fra parecchi di essi -specie i più giovani, che sono poi anche, in generale, i nuovi immigrati – era maturata l’idea di abbinare allo sciopero un grande corteo, che portasse la protesta fuori dalla fabbrica, nella città, che facesse sentire in modo più concreto il calore della rivolta operaia, riscaldando i tiepidi, trascinando gl’incerti, fondendo la volontà dei singoli in un grado più alto di coscienza politica anticapitalista. Ed il corteo fu indetto e propagandato, nei giorni precedenti lo sciopero, dal raggruppamento “operai e studenti”, che costituisce un primo fenomeno di fusione – per quanto informale – fra ciò che è rimasto in vita del Movimento studentesco torinese ed i giovani combattivi operai che vanno emergendo negli stabilimenti Fiat della città e della cintura.
I sindacati, naturalmente, rimasero completamente estranei all’idea del corteo. Con la loro affannosa ricerca dell’accordo col padrone – ricerca in cui in questi ultimi tempi si sono ancora più volte distinti a Torino – i dirigenti sindacali si sono ormai tagliati fuori da qualsiasi possibilità di controllare le nuove leve operaie, e le temono anzi e le vituperano in blocco con l’epiteto di “estremisti” che ben conosciamo. Così i burocrati sindacali – che pure erano stati indotti a proclamare lo sciopero sotto la pressione della mobilitazione in corso tra i giovani operai – si sono limitati ad indire per il mattino del 3 alcuni comizi rionali.
Il corteo fu indetto per il pomeriggio alle 15, con partenza dalla porta 2 della Fiat Mirafiori in Corso Tazzoli, dal raggruppamento “operai e studenti” con l’appoggio anche di qualche gruppo minore di intervento, come quello di “Iniziativa operaia” recentemente costituitosi. Il mattino del 3 luglio, forti contingenti di poliziotti e carabinieri stazionavano davanti ai cancelli della Fiat Mirafiori, cercando di sciogliere i picchetti e far entrare i crumiri; azione piuttosto sterile, data la scarsezza di crumiri. Ma il compito delle “forze dell’ordine” era un altro, e si rivelava nel primo pomeriggio, quando il corteo stava per comporsi davanti alla porta 2. Qui infatti il Vice questore Voria lanciava le prime selvagge cariche contro i dimostranti, fatte dagli uomini in corsa col moschetto usato come clava, e accompagnate da caroselli di jeep e di raffiche di proiettili lacrimogeni. I dimostranti si scioglievano e si ricomponevano in gruppi, rispondendo con sassi e ricacciavano più volte carabinieri e poliziotti, fino a che tutto il Corso Tazzoli era avvolto in una nube irrespirabile. Primi feriti da entrambe le parti e primi fermi. Ma intanto il corteo riusciva a riformarsi in Corso Agnelli, dove si erano raccolte molte migliaia di persone, operai e studenti, e partiva cantando verso corso Unione Sovietica, con in testa un grande striscione rosso con la scritta “Tutto il potere agli operai”, e miriadi di cartelli di protesta e di rivolta.
Seguirono altri tentativi della polizia di disperdere il corteo attaccandolo da tergo con caroselli, ma le file dei dimostranti si erano ingrossate, si snodavano e procedevano, raggiungendo e imboccando il Corso Traiano, per dirigersi in Via Nizza ad incontrare i compagni della Fiat Lingotto. Parecchie centinaia di metri furono percorse apparentemente indisturbati, sventolando bandiere rosse, cantando e gridando slogan contro il padrone. Intanto però i camion della polizia – tra cui il ben noto battaglione Padova – correvano nelle strade parallele e a volte anche sull’altra carreggiata del corso, sviluppando una manovra a tenaglia: erano circa le 16 quando il corteo veniva nuovamente attaccato, questa volta da tutte le parti in modo massiccio, e veniva disperso. Assaliti dal calcio dei moschetti, semisoffocati dalle bombe lacrimogene sparate senza risparmio, i dimostranti cercavano riparo nel dedalo di case, cortili, cantieri, orti, officine e prati che costeggiavano il Corso Traiano e le trasversali. La polizia iniziava allora un vero e proprio rastrellamento. Molti venivano snidati casa per casa, e dovevano fuggire ancora. Chi era raggiunto, fosse operaio, studente o abitante del rione casualmente coinvolto, veniva pestato duramente, preso e caricato a forza sui cellulari.
Ma qualche gruppo di dimostranti aveva resistito e contrattaccato col lancio mdi sassi, altri – prima dispersi – tornavano a raccogliersi e si univano ai primi. Si aggiungevano pure numerosi abitanti del rione, specialmente giovani, che da spettatori diventavano protagonisti, in odio al comportamento della polizia. Si accendevano così un’infinità di piccoli scontri, sorgevano barricate di legname e di altri materiali prelevati dai cantieri, paline stradali, auto in sosta e persino una bisarca carica di auto Fiat. Dietro, o meglio attorno alle barricate, in continuo movimento, i dimostranti armati di sassi, e dall’altra parte i poliziotti con i manganelli, i moschetti, le jeep e le bombe lacrimogene, sparate senza posa. Mentre molti studenti dispersi si raccoglievano al Castello del Valentino davanti alla Facoltà di Architettura occupata (dove venivano attaccati duramente da altri contingenti delle “forze dell’ordine”), tutto il vastissimo rione tra la Mirafiori e Borgo San Pietro, che ha per asse il Corso Traiano, risuonava di scoppi e di grida; a tratti tutto taceva, e allora si levava alto il tam-tam dei sassi battuti contro i pali metallici del filobus, a scandire slogan o canzoni rivoluzionarie. Poi gli scontri si riaccendevano un po’ più lontano. Così fino a notte, così fino alle prime luci dell’alba del 4, tra il fumo dei lacrimogeni e le barricate in fiamme.
È necessario a questo punto esaminare, sia pure sommariamente, le componenti della lunga lotta alla Fiat, 5-6 settimane, lotta di cui i fatti del 3 luglio sono stati il coronamento. La prima componente è naturalmente la situazione oggettiva degli operai Fiat, in particolare dei nuovi assunti, così numerosi alla Mirafiori. Poi vi fu il lavoro condotto per diversi mesi, su alcune officine, da un piccolo gruppo di intervento del Psiup, con il suo bollettino Giornale di lotta; la federazione del Psiup di Torino, come è noto, ha da tempo posizioni migliori di quella del partito sul piano nazionale ed il gruppo di intervento del Psiup torinese è stato capace di raccogliere, dall’esperienza di alcune fabbriche di altre città, l’idea assolutamente positiva del delegato di squadra, da eleggersi dall’assemblea operaia nella fabbrica durante la lotta, responsabile soltanto di fronte ai compagni di lavoro e da essi revocabile in qualsiasi momento. [Però] il padrone passava subito al contrattacco, colpendo con sospensioni trasferimenti gli eletti e i sindacati riuscivano a snaturare l’idea del delegato di squadra, intervenendo con alcuni scioperi da essi organizzati e poi concludendo con il padrone un accordo per la designazione del delegato di linea, con funzioni praticamente di “esperto” che controlla “l’equo sfruttamento”. […] Intanto era entrato in campo il terzo fattore, il Movimento studentesco. In seguito ad alcuni incontri e dibattiti fra diversi “gruppetti” che si collocano a sinistra dei partiti ufficiali […] due di questi gruppi si accordavano per condurre un’azione tendente ad impegnare nel lavoro verso la Fiat quanto restava del movimento studentesco, che da qualche tempo ristagnava alla ricerca di nuovi temi di lotta.
L’operazione aveva qualche precedente, poiché già l’anno scorso il movimento studentesco aveva appoggiato alcune lotte settoriali alla Fiat. Ma allora si era trattato di un’attività sporadica, condotta per pochi giorni. Ora invece un notevole numero di studenti veniva impegnato per un’attività prolungata e costante a tutte le porte di Mirafiori, con l’obiettivo di raccogliere le esigenze di lotta che nascevano nella fabbrica e di aiutare gli operai ad organizzare la lotta per queste esigenze, indipendentemente dai sindacati, anzi contro di essi. Strumenti essenziali di questa attività i volantini (“lotta continua”), praticamente uno ogni giorno, tirato a decine e decine di migliaia di esemplari; i testi stesi dapprima dagli esponenti del Movimento studentesco o dei gruppi in esso confluiti, poi sempre più spesso e più a lungo discussi dalle innumerevoli assemblee, con la partecipazione non solo di studenti ma anche di nuovi quadri operai emersi dalla lotta.
Risultato del concorrere di tutti questi fattori […] furono sei settimane di lotta dura alla Fiat. Un reparto dopo l’altro entrava in sciopero, uno cessava mentre gli altri cominciavano, poi la lotta si spegneva per riaccendersi altrove qualche giorno dopo. Frutti di questa lotta per ora nessuno, cioè nessun aumento di salario, nessuna riduzione di orario, nessun rallentamento dei ritmi, nessun miglioramento dell’ambiente di lavoro, ecc.; se si eccettua un aumento trascurabile (17 lire, e neppure per tutti) ottenuto con un accordo (giustamente definito “accodo bidone”) che i sindacati hanno concluso col padrone dopo essersi inseriti nella lotta promuovendo uno sciopero generalizzato di due ore per turno. Ma la lotta ha avuto veramente un frutto molto più importante: una sensibile ripresa di coscienza operaia alla Fiat, una certa maturazione di quadri sia tra i giovani sia tra gli studenti, un inizio di politicizzazione in strati più larghi, tutti fattori che risulteranno preziosi per l’approfondimento e l’allargamento della lotta, che le scadenze contrattuali di settembre necessariamente richiederanno.
Tuttavia, nella pausa di ripensamento che è succeduta ai fatti de 3 luglio, molti hanno cominciato a domandarsi, nel raggruppamento “operai e studenti”, se da una mobilitazione così ampia e così duratura siano veramente stati tratti tutti i frutti che ci si poteva aspettare. Nelle assemblee, non solo in quelle larghe e praticamente pubbliche del sabato (più di 500 persone), ma anche in quelle più ristrette che si tengono ogni giorno e notte, una autocritica pressoché unanime è emersa: manchiamo di organizzazione, il nemico contro il quale siamo venuti a cozzare è formidabile perché organizzato, dobbiamo organizzarci. […] In primo luogo, resta aperto il problema dell’orientamento politico del raggruppamento “operai e studenti”. Esso non è ormai più il vecchio movimento studentesco sia perché non comprende più tutti gli studenti, sia perché ha inglobato un certo numero di operai radicalizzati e alcuni dei vecchi gruppi di sinistra. Ma la linea politica? […] Anche sul piano organizzativo l’obiettivo della costruzione del partito rivoluzionario, democratico e centralizzato, è tutt’altro che universalmente accettato ed i più, pur accogliendo la nuova parola d’ordine dell’”organizzazione”, continuano a credere soltanto nella democrazia assembleare (per di più senza voto), con il relativo corollario di una direzione di fatto affidata a coloro che hanno più resistenza al sonno o minori necessità di lavorare per vivere. […]
In secondo luogo, è tutt’altro che risolto positivamente il problema dei rapporti con le organizzazioni operaie esistenti. Infatti, se è unanime – e certamente giusta per noi – l’avversione per la politica opportunista di tali organizzazioni, non si è ancora compreso: 1) che alla costruzione di qualsiasi altra nuova forma dell’organizzazione dell’avanguardia e della classe, dovranno dare un contributo numericamente decisivo coloro che sono tuttora membri delle esistenti organizzazioni operaie, […] quindi bisogna riuscire a coinvolgerli, non respingerli […]; 2) che in ogni caso l’organizzazione sindacale rimarrà poiché essa è la forma elementare di organizzazione della classe, forma che bisogna volta a volta utilizzare o criticare, pungolare o fustigare, ma non distruggere (come gli operai ben comprendono, non solo quelli non ancora politicizzati, ma anche parecchi di quelli che frequentano le assemblee).
In terzo luogo, il raggruppamento “operai e studenti” non ha finora neppure voluto prendere atto dell’esistenza del problema, enorme dell’organizzazione politica della classe, come problema distinto – perlomeno in prospettiva – da quello dell’organizzazione dell’avanguardia. […] Vogliamo «democratizzare» il leninismo, affidando maggior potere all’assemblea di base? Probabilmente è giusto e possibile. Ma resta d’altronde evidente che non si possono riunire assemblee di milioni di persone […] L’organo fondamentale sarà quindi l’assemblea di base di unità di lavoro, ma deve fin d’ora essere accettato e anzi sottolineato il concetto che da questa assemblea di base deve essere eletto qualche delegato, e che i delegati di unità affini costituiranno un comitato che eleggerà a sua volta dei delegati per un comitato di livello superiore, con giurisdizione più estesa via via fino alla città, allo Stato, […].
Per questo chi scrive considera essenziale che accanto alla tematica dell’assemblea in fabbrica, che giustamente è stata portata avanti, venga altrettanto sviluppata e propagandata la tematica dell’elezione, da parte delle assemblee, di delegati controllati e revocabili in qualsiasi momento dai loro elettori, e responsabili soltanto di fronte ad essi. Per quanto sopra consideriamo un grave errore che il movimento nato alla Fiat si sia opposto fin dall’inizio a quanto di positivo c’era nell’idea del delegato revocabile di squadra […]; il non avere colto questo spunto rivoluzionario, che molti operai avevano vivamente sentito, ha permesso ai sindacati di cercare di strumentalizzare l’dea, di “cavalcare la tigre”, indicendo, come avviene mentre scriviamo, le elezioni dei delegati di squadra sotto i propri auspici: con il risultato che in alcuni reparti gli operai d’avanguardia accetteranno l’elezione pur sentendosi in una posizione ambigua (poiché i sindacati attribuiscono a tali delegati soltanto il compito di eleggere ed aiutare il delegato di linea che dovrà fare da tramite tra gli operai e la Commissione Interna per far rispettare gli accordi conclusi fra sindacati e padrone); mentre in altri reparti gli operai di avanguardia rifiuteranno l’elezione, rischiando l’isolamento rispetto agli altri operai, e contribuendo a lasciarli sotto l’egida dell’organizzazione sindacale. […] Ma forse il movimento di classe sarà più forte non soltanto delle pastoie burocratiche ma anche delle illusioni spontaneistiche: e molti delegati di squadra, eletti dagli operai sotto l’egida dei sindacati, diverranno il più duro ostacolo alla politica conciliatoria dei dirigenti opportunisti, ed andranno a rinforzare le fila dell’avanguardia operaia che sta maturando alla Fiat, con l’aiuto esterno delle avanguardie studentesche.
*tratta dal giornale Bandiera Rossa, del 15-31 luglio 1969 e riprodotta in appendice al libro di Diego Giachetti, La rivolta di Corso Traiano. Torino 3 luglio 1969, BFS Edizioni, Pisa, 2019
I tafferugli del 3 luglio furono un fatto slegato dalle lotte Fiat.L’autunno caldo inizierà due mesi dopo con il “gatto selvaggio dell’officina 32.Come conseguenza ci fù “La serrata Fiat; Le confederazioni sindacali furono costrette a chiedere un avvio anticipato delle trattative per il contratto Nazionale dei metalmeccanici nel tentativo di prendere in mano un iniziativa di lotta che rischiava di sfuggire agli indirizzi sindacali.