Ma sulla luna ci siamo stati? I misteri della corsa alla spazio, frutto della guerra fredda, 50 anni dopo
Cinquant’anni fa l’uomo metteva piede sulla luna: un grande passo per l’umanità. La frase – preparata ad arte – con cui Neil Armstrong trasmise ai posteri l’impresa è nota, meno (e assai più vera) l’altra del copilota Buzz Aldrin, quando si rese conto che poteva coprire la terra con il pollice, dalla luna. Si commosse, Aldrin, toccando con mano – quasi – quanto fossero poca cosa gli umani e le loro beghe, nell’immensità del cosmo. L’impronta dello scarpone del comandante della missione Apollo 11 è sempre là, sul suolo lunare. Fa bella mostra di sé nelle foto interattive che la Nasa ripropone sul suo sito, con il programma apolloinrealtime per rivivere in presa diretta l’allunaggio.
Solo in Italia sono un migliaio gli eventi del cinquantenario. Dalla street astronomy di Celano ai laboratori didattici nella casa dell’orco di Domusnovas; dai dibattiti sotto le stelle a Ventotene alla rievocazione dello sbarco al Circo Massimo, a Roma. È una febbre, come quella che colse l’umanità la sera del 20 luglio 1969 e il dì successivo, alla posa del primo piede, che ha preso chi sulla luna non mette più piede dal ‘72 ma vuole tornarci nel 2024, con la missione Artemide della Nasa. Mentre la Cina è come sempre avanti, già pensa a Marte.
Una febbre che non contagia chi nega tutto, e denuncia la gigantesca fake moon come frutto di mene cospirazioniste, ancora cinquant’anni dopo la corsa alla luna frutto della guerra fredda. Una gigantesca messiscena fatta in casa dai soliti servizi segreti statunitensi, tipo Pearl Harbor o Torri Gemelle ma più in grande, planetaria. A prescindere da ogni altra prova, provata o presunta, la migliore risposta alle tesi complottiste è: perché i russi avrebbero taciuto una simile bufala dello storico rivale?
Piuttosto, come mai Mosca perse la corsa, dopo aver dominato la gara dai tempi dello Sputnik e aver allunato per prima, senza equipaggio, nel 1966? Lo stesso anno morì Korolev, progettista capo, in un incidente. Il 3 luglio 1969 – poco prima del lancio da Cape Canaveral del Saturno five – il gigantesco razzo n. 1 (il quinto dei tredici costruiti, molti dei quali andati persi nei numerosi incidenti) esplose nella base kazaka di Baikonur, mietendo vittime e distruggendo il sogno sovietico d’arrivare primi sulla luna. L’inchiesta stabilì la presenza di “un oggetto metallico estraneo” nel vettore. Un po’ come il cacciavite nel rotore di Mattei. Kennedy che la corsa allo spazio l’aveva lanciata era stato ucciso in un complotto a Dallas, e alla Casa Bianca c’era il suo vice, Johnson, secondo alcuni vicino ai congiurati. A Kruscev era andata meglio, era stato confinato da Breznev nella sua dacia e poté morire tranquillo, privilegio raro per i leader sovietici. Insomma, non erano tempi sereni e i nemici non mancavano manco in casa.
Ma, soprattutto, perché diavolo nessuno insegnò ad Aldrin a fare foto, visto che non ne fece nessuna ad Armstrong a spasso sulla luna e l’altro pilota, il romano Michael Collins – il quasi novantenne pilota del modulo lunare è nato a Roma nel 1930, una targa lo ricorda in via Tevere 16 – se ne stava solo soletto, senza manco potersi godere l’allunaggio degli altri due, come il resto del mondo?
Eccoli i lati oscuri dell’allunaggio, a mezzo secolo da allora.